Il Blog di Livia Turco

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Categoria: Interviste

Serve un welfare di prossimità che rifletta la cultura della 328

18 Dicembre, 2020 (18:21) | Interviste | Da: Redazione

Il 15 dicembre 2020 si è svolto il webinar “Più bisogni, quali risorse?”, parte del nostro percorso di ricerca verso il Quinto Rapporto sul secondo welfare, che sarà presentato nell’autunno 2021. All’incontro, insieme a Francesco Profumo (Presidente di Acri) e Tiziano Treu (Presidente del Cnel) era stata invitata anche Livia Turco (Presidente della Fondazione Nilde Iotti) che purtoppo per problemi tecnici non ha potuto portare il proprio contributo su uno dei temi centrali del nostro confronto: il welfare di prossimità.

 

Come promesso, abbiamo ricontattato la Presidente Turco - che ringraziamo per la disponibilità - chiedendole di rispondere alle domande che avremmo voluto farle nel corso dell’incontro. Ecco cosa ci ha risposto.

Nel 2000 la legge 328, di cui lei fu firmataria, disegnò un sistema dei servizi sociali molto articolato e fortemente radicato nei territori, grazie anche a un forte coinvolgimento del Terzo Settore. A 20 anni di distanza che bilancio possiamo fare di quel provvedimento?

In questi vent’anni si è sviluppato un welfare a due dimensioni: una locale e una nazionale. La 328 ha seminato molto nei territori perché ha aiutato a costruire un welfare locale; basti pensare che è stata recepita da tutte le Regioni (attraverso specifiche leggi regionali) e che i piani di zona sono un’esperienza che si è diffusa e consolidata nei territori. Purtroppo però la 328 non è stata applicata dal livello nazionale, in particolare rispetto alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) che sono un caposaldo di questo intervento normativo. Si tratta di una grave lacuna. I LEP sono fondamentali e questo lo ha dimostrato anche la pandemia che ha portato in primo piano il drammatico bisogno di una rete di servizi sociali. 


Quali sono i fattori che, a suo avviso, hanno ostacolato la definizione dei LEP?

Contrariamente a quanto si pensa comunemente, la mancata definizione dei LEP non è imputabile alla riforma che Titolo V dato che questa prevede un sistema di governance basato sui LEP. Direi piuttosto che i LEP non sono stati applicati perché, negli anni successivi alla fine della XIII legislatura, è prevalsa l’idea di un welfare basato sul dono e sulla carità. Di conseguenza, gli interventi messi in campo si sono concretizzati in trasferimenti monetari e bonus piuttosto che in servizi sociali. Una visione, questa, che non ha nulla a che vedere con la cultura della 328, ma che poi non è stata contrastata neanche dai successivi Governi di centro-sinistra. 

Cosa caratterizza questa “cultura della 328”? 

In primo luogo, l’idea della 328 era quella di dar vita a un terzo pilastro del welfare. Accanto al pilastro sanitario e pensionistico si voleva dare corpo a un sistema integrato di servizi in grado di rispondere ai bisogni sociali tenendo conto di tutte le stagioni della vita; dall’infanzia fino all’età anziana. La costruzione di questo sistema era - ed è tuttora - compito del Pubblico, che potrebbe fare la sua parte fino in fondo mettendo in campo risorse e definendo i LEP. Su questo, come detto, è stato fatto troppo poco perché oggi abbiamo un sistema di servizi che è debole. 

In secondo luogo, la 328 puntava anche sulla valorizzazione del Terzo Settore. Nel quadro di questo intervento normativo, infatti, il Terzo Settore è riconosciuto come soggetto attivo della progettazione sociale, coinvolgibile nella programmazione degli interventi e con un ruolo specifico all’interno dei piani di zona. Oggi siamo ben lontani da  questa idea. In molti contesti il Terzo Settore non è considerato come una realtà che può lavorare insieme al Pubblico, ma piuttosto come una componente che supplisce le carenze in una “logica a ribasso”, che mira solo al contenimento dei costi.

A vent’anni di distanza mi sembra che la “cultura della 328” si sia affermata nei territori e fra gli operatori, ma purtroppo non nella politica. Quello che vedo è uno scarto fra un mondo sociale che ha fatto propri i valori della 328 e un mondo politico che invece ancora fatica a riconoscere il ruolo e il valore dei servizi sociali.

Pensa che la pandemia possa incentivare lo sviluppo definitivo di un modello di welfare che rifletta la “cultura della 328”? 

Certamente me lo auguro e direi che la situazione attuale pone la necessità di andare in questa direzione. La pandemia ci chiede di realizzare un vero welfare di prossimità, un welfare che valorizzi le competenze degli attori e le reti che essi possono costituire. E ci chiede di realizzare nuovi percorsi di cittadinanza attiva e di rendere quindi i destinatari degli interventi protagonisti del loro benessere. In sostanza, credo che la pandemia abbia dimostrato che il welfare di prossimità deve essere il modello per il welfare del futuro. 

Dove crede sia importante agire per realizzare concretamente un welfare di questo tipo?

In questa fase, sarebbe utile partire dal welfare locale che c’è; che ha resistito e che ha saputo rinnovarsi seppur nelle sue difformità. A livello territoriale, il Pubblico dovrebbe agire come “sollecitatore di responsabilità” verso tutti gli attori economico-sociali. E in questo senso credo che sia fondamentale l’integrazione e il raccordo fra i tre sistemi di welfare oggi presenti: pubblico, aziendale e filantropico.  

Inoltre, a distanza di vent’anni, non mi limiterei più ai Piani di zona ma immaginerei la realizzazione di “Patti territoriali per il benessere sociale”, che mettano attorno a un tavolo non solo il sociale, il sanitario, il lavorativo - quindi tutti i pezzi del welfare pubblico - e permettano di costruire relazioni stabili con il welfare aziendale e con quello filantropico. Dal mio punto di vista, ovviamente, queste altre forme di welfare non possano e non debbono sostituirsi al welfare pubblico, ma perché questo rischio sia evitato occorre coordinamento.

In altre parole, oggi abbiamo un welfare pubblico dei servizi sociali che è misero e che va assolutamente potenziato. Perché questo accada, a mio avviso, la politica deve cogliere l’occasione per investire ingenti risorse nelle politiche sociali e definire, finalmente i LEP. Ma questo non basta. È necessario infatti che il Pubblico instauri un dialogo con le altre forme di welfare che ci sono sui territori, sviluppando una condivisione sinergica degli obiettivi e definendo accordi con il welfare aziendale e filantropico. Se non fa questo il welfare pubblico rimane miope.

Intervista di Chiara Agostini su SecondoWelfare.it 

Nilde Iotti oggi ci direbbe di continuare a lottare per i nostri ideali

4 Dicembre, 2020 (16:57) | Interviste | Da: Redazione

Sempre in prima linea. Dalla resistenza e dall’attivismo per chi era in difficoltà, fino agli scranni del Parlamento. Madre costituente della Repubblica, parlamentare italiana ed europea, prima donna Presidente della Camera dei Deputati, una straordinaria donna italiana il cui ricordo deve essere coltivato sempre e non solo nel giorno della ricorrenza della sua morte, avvenuta ormai 21 anni fa.

“Ancora oggi appare incredibile il suo percorso: un’evoluzione civile e democratica che rimane un modello imprescindibile per la storia del nostro Paese, per le lotte che la videro protagonista e la caratura etica e morale che l’ha contraddistinta”. Livia Turco, già parlamentare e ministra, oggi presidente della Fondazione Nilde Iotti celebra la donna e il simbolo che oggi più che mai può rappresentare un faro in un momento complesso come quello che stiamo vivendo”.

Quale sarebbe per lei il messaggio e l’invito che Nilde Iotti avrebbe rivolto oggi al suo Paese?

“Nilde è stata una guerriera prima di tutto. Ha lottato nella sua vita per ciò in cui credeva e oggi senza giri di parole sono sicura che sarebbe arrabbiata. Ci direbbe chiaro e tondo che bisogna non solo avere degli ideali, ma che è necessario lavorare affinché siano calati nella realtà e soprattutto che non bisogna mollare”.

Arrabbiata?

“Certo. Non bisogna indorare la pillola, Nilde Iotti sarebbe assolutamente infuriata. Me la sento dire ‘Vergogna’. Vergogna perché sono passati 70 anni e tanti principi costituzionali rimangono solo sulla carta, come per esempio la parità salariale. Se lei fosse qui, sarebbe incredula nel vedere a che punto siamo, soprattutto per la questione femminile. E proprio per questo sarebbe di nuovo in prima linea per dimostrare che le leggi non bastano, ma vanno tradotte in scelte politiche. In cultura. In azione”.

Quindi la immagina sempre in prima linea? 

“Voglio ricordare quello che Nilde fece col suo primo incarico ufficiale per l’Udi: l’accoglienza di 1500 bambini di Milano da sfamare e da vestire. Nilde ci spronerebbe a guardare le cose con occhio lungo, ma allo stesso tempo ad avere molta cura delle persone. Quindi, una politica al servizio e solleciterebbe un fare concreto. In contemporanea però sarebbe coi giovani per progettare il futuro e costruire l’orizzonte di un cambiamento”.

 

Nilde Iotti è stata però anche una donna e un simbolo delle istituzioni che forse oggi non sono più di moda…

“Di una cosa sarebbe molto felice: i passi avanti fatti dall’Europa. Da donna di pace, coglierebbe questa nuova fase per costruire il sentimento del popolo europeo. Vedrebbe questa come una grande occasione. Di fronte alla pandemia – che ha dimostrato come le nostre vite sono fragili e interconnesse – non esiterebbe di nuovo a lottare per rafforzare il messaggio di comunione, equità e sviluppo, per tutti. Nessuno escluso. Credo che sarebbe d’accordo col Papa: fratellanza universale”.

Come è giusto ricordarla?

“Vorrei lanciare un invito, un appello alle scuole affinché insegnino ai nostri giovani chi era, non solo Nilde Iotti, ma tutte le 21 Madri costituenti. Anche le storie meno note sono di una ricchezza unica e ci possono lasciare non solo un’incredibile eredità da preservare, ma una rotta da continuare a percorrere. Per esempio ogni anno di nascita potrebbe essere l’occasione per una lezione dedicata a queste 21 meravigliose figure”.

Rispetto invece al momento storico di passaggio che stiamo vivendo quale svolta va sottolineata in occasione di questo centenario?

“Dico subito che Nilde sarebbe inorridita dal gergo che riduce il Parlamento in una poltrona. Lei, donna che ha dedicato la sua vita alla dignità delle istituzioni, di fronte al dilagante populismo agiterebbe il suo vangelo: la Carte costituzionale. La sua lotta sarebbe ancora per le riforme: il superamento del bicameralismo perfetto, avere un Parlamento competente e autorevole e quindi efficace ed efficiente; e poi l’idea costante di una politica popolare che possa essere colta, aperta e in cui tutti possano poter partecipare. La crescita democratica parte da questo e in questo centenario abbiamo il dovere di celebrare la sua forza e attualità, manifestazione di un’eredità che è patrimonio dell’intero Paese”.

Maddalena Carlino

Intervista pubblicata su immagina.eu

“Io, comunista italiana, orgogliosa come allora”, intervista a “Sette”

30 Ottobre, 2020 (12:34) | Interviste | Da: Redazione

Cuneese, cattolica, l’ex ministra di centrosinistra ricorda l’addio alla campagna per fare politica. «Andai a Torino, a Morozzo l’idea in cui credevo aveva significati sinistri». In città, lo choc: «Scoprii il terrorismo rosso e la presa che aveva su studenti e operai» di Tommaso Labate su “Sette” del Corriere della Sera

Dicono che il tempo lenisca i dolori, addolcisca i ricordi brutti, metta un filtro alle immagini che si vorrebbero dimenticare. Vera in parte la prima, false le altre due. «Quel giorno del 1977 lo ricordo come se fosse adesso. Era il primo ottobre, quarantatré anni fa. Il corpo di quel ragazzo, completamente ustionato, era davanti a me. Noi della Federazione giovanile comunista di Torino eravamo presenti al corteo di Lotta Continua, anche se non avevamo aderito alla manifestazione. Qualcuno dalla folla lanciò delle molotov all’interno di un bar, l’Angelo Azzurro, che si diceva fosse gestito da fascisti, anche se non era vero. Roberto Crescenzio, uno studente lavoratore, era là dentro. Il corpo che avevo davanti ai miei occhi era pietrificato. Non saprei come definirlo se non così, pietrificato…».

Il tempo di Livia Turco, oggi, è assorbito dal lavoro alla Fondazione Nilde Iotti, che ha fondato anni fa assieme a Marisa Malagoli Togliatti, figlia di Iotti e Palmiro Togliatti, e a una decina di altre amiche e compagne. Prima ancora è stata ministra della Salute e della Solidarietà sociale nei governi Prodi, D’Alema e Amato oltre che parlamentare per diverse legislature, col Pci, poi col Pds-Ds, infine col Pd. Nel 1977 era una giovane comunista arrivata da qualche anno a Torino da Morozzo, duemila anime in provincia di Cuneo. Un anno dopo sarebbe diventata la prima donna a guidare la Federazione dei giovani comunisti di Torino.

I suoi genitori la appoggiavano?

«A Morozzo non c’erano i comunisti. La parola stessa assumeva un significato sinistro, lassù. Avevo imparato la dignità della condizione operaia da mio papà ma la mia era una famiglia di cattolici, elettori della Dc. Dovetti andarmene a Torino per fare politica in santa pace».

Lei è cattolica, giusto?

«Messa tutte le domeniche, da bambina persino la lettura della poesia al parroco che se ne andava. Diventai comunista, anzi catto-comunista, quando Enrico Berlinguer teorizzò il compromesso storico. La scoperta più sconvolgente, per tutti quelli della mia generazione, era che ci fossero comunisti che predicavano la violenza e la lotta armata. Credetemi, scoprire l’esistenza del terrorismo rosso, e quanto potesse essere pervasivo presso operai e studenti, fu sconvolgente, lancinante».

Ha mai avuto paura?

«Nel movimento giovanile del Pci ci si sentiva protetti da una storia più grande di noi. Quindi, direi di no. Un po’ cominciai ad averne quando gambizzarono Nino Ferrero, bravissimo giornalista dell’ Unità, che aveva la redazione dove noi avevamo la nostra sede; lanciammo una campagna “contro ogni forma di violenza”, un messaggio che oggi potrebbe sembrare scontato ma che per quell’epoca, mi creda, non lo era».

Nel 1978 diventa la segretaria della Federazione dei giovani comunisti di Torino, prima donna a guidare l’organizzazione nella città della Fiat.

«Il battesimo di fuoco fu con una riunione alla quale era presente Giancarlo Pajetta».

Partigiano, l’uomo dell’occupazione della Prefettura di Milano nel ‘47, grande dirigente nazionale del Pci.

«Mi chiesero di fare un intervento alla sua presenza, una specie di battesimo di fuoco della mia segreteria. Dissi che noi giovani eravamo sconvolti dal terrorismo rosso, che avremmo difeso in ogni modo le istituzioni ma che quelle stesse istituzioni dovevamo cambiarle. I giovani del Pci stavano senza se e senza ma con lo Stato; ma la domanda di cambiamento dello Stato avremmo dovuto raccoglierla, senza esitazioni. Pajetta riprese la parola, disse una cosa tipo “faccio gli auguri alla segretaria dei giovani ma devo dire che inizia molto molto male; fa un intervento per dire che lo Stato va cambiato ma dimentica le cose che lo Stato fa per le nuove generazioni, come il voto ai diciottenni”. Non mi sentii intimidita. Ma sconcertata sì, lo ero, per quella risposta».

L’organizzazione giovanile nazionale era guidata da Massimo D’Alema. A Torino, nel Pci, c’erano Piero Fassino e Giuliano Ferrara. Un pezzo di classe dirigente nazionale degli anni a venire.

«D’Alema dimostrava di essere un leader lungimirante già da quell’esperienza di guida del movimento giovanile del Pci. Anche di Fassino ho incredibili ricordi, guidava la Federazione di Torino quando ero arrivata in città. Ricordo la manifestazione del 1974 per il referendum sul divorzio, venne Nilde Iotti, la dirigente che più di tutti si era battuta perché il Partito sostenesse con convinzione il No all’abrogazione della legge, cosa che all’inizio era tutt’altro che scontata».


La solidarietà nazionale delle maggioranze Dc-Pci com’era, agli occhi di una giovane comunista?

«Fu un grande insegnamento che non avrei mai dimenticato, neanche dopo. Il dialogo parlamentare da un lato e la protesta sociale dall’altro portarono all’approvazione di leggi che senza quell’esperienza non sarebbero mai arrivate. La legge Basaglia che chiuse i manicomi, la legge 194 sull’aborto, la 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, la 285 sul lavoro».

Anni dopo lei sarebbe diventata la madre della legge sull’immigrazione pre epoca Bossi-Fini, la legge Turco Napolitano.

«Ne vado ancora orgogliosa. Anche di quello che successe dopo, con l’arrivo della Bossi-Fini, quando i medici italiani protestarono contro il rischio concreto che venisse tolta l’assistenza sanitaria agli immigrati che avevamo introdotto con la nostra legge».


Come fu la fine del Pci?

«Dolorosa. Io ero a favore della svolta di Occhetto ma andavo in giro per i congressi a sostenerne le ragioni con le lacrime agli occhi. Vede, per quelli della mia generazione l’essere altro rispetto all’Unione Sovietica era un tema già risolto. I conti li aveva fatti Enrico Berlinguer, con chiarezza. Ma capivamo con dolore che quella parola, comunismo, in certe parti del mondo aveva un significato che per noi non aveva; e per questo, con dolore, dovevamo rinunciarci».


Come si definirebbe oggi?

«Esattamente come mi definivo allora. Una comunista italiana. E, come allora, di questa storia continuo a essere orgogliosa».

CARTA D’IDENTITÀ

La vita — Livia Turco, nata in una famiglia cattolica e operaia il 13 febbraio 1955 a Morozzo (Cuneo), si è laureata in Filosofia a Torino, dove ha iniziato la militanza politica. Sposata con Agostino Loprevite nel 2006, dopo 20 anni di convivenza, ha un figlio, Enrico, nato nel 1992.

La politica — Diventa segretario provinciale della Fgci nel 1978. Eletta deputata nelle file del Pci per la prima volta nel 1987, è poi favorevole alla svolta della Bolognina: aderisce prima al Partito Democratico della Sinistra e poi ai Democratici di Sinistra e al Pd. Dal 1996 al 2001 è ministro per la Solidarietà sociale nei governi Prodi, D’Alema e Amato e ministro della Salute nel Prodi II dal 2006 al 2008. Nel 2013 decide di non ricandidarsi ed è assunta come funzionario del Pd, suscitando polemiche nel partito

“Io”, “Noi” e le donne. Intervista a cura di Natalia Marino

29 Luglio, 2020 (10:32) | Interviste | Da: Redazione

“Ho avuto la fortuna di vivere la politica come passione”, spiega Livia Turco, già parlamentare e ministra, oggi presidente della Fondazione Nilde Iotti. Forse è una delle ragioni del calore con cui si è rivolta alle donne con la lettera aperta “L’onda d’urto femminile”, affinché tornino a reagire, a riprendere le redini delle loro vite. Nella consapevolezza che il dramma vissuto, e ancora viviamo, per il Covid-19, ha segnato per sempre un prima e un dopo. E se indilazionabile è costruire un nuovo modello di sviluppo, l’universo donna deve tornare ad essere protagonista.

“Care donne – abbiamo letto – dobbiamo costruire un’onda d’urto che invada la società e le istituzioni della politica”. Parole forti, Turco.

Con la pandemia ci siamo scoperti fragili e interconnessi gli uni agli altri e strettamente legati all’ambiente. Abbiamo capito che non siamo onnipotenti signori del mondo, ma solo una parte. Il Covid ci impone un cambiamento radicale, antropologico direi, altrimenti saranno guai. Va rimesso al centro il “noi”, i beni comuni. Finora siamo andati avanti ubriachi di “io” e ci siamo ritrovati in un dramma epocale. Non va dimenticato. E l’interdipendenza può solo essere elaborata in solidarietà, relazione umana, nel prendersi cura delle persone, nella convivenza tra culture diverse. Cioè quello che le donne hanno sempre sostenuto. I fatti oggi ci danno ragione. Ho preso atto però che le donne sono sparite dalla scena politica, la coralità delle donne, intendo.

Assenti o silenti, secondo Turco?

Mi spiego con un esempio. Dopo Chernobyl, con le donne del Pci, le scienziate, le realtà femminili e femministe promuovemmo un convegno. Ci interrogammo e scoprimmo la coscienza del limite, il valore del lavoro di cura, della tutela dell’ambiente, la centralità dei beni comuni, della comunità. E queste categorie politiche sono la cassetta degli attrezzi che abbiamo elaborato, intendo la mia generazione, ed è utilissima in questo tempo, indispensabile. So bene che nel passato non siamo riuscite a imporre questi strumenti ma appunto per questo mi vien da dire: se non ora quando? Alla imprescindibile condizione, sia chiaro, di aver la consapevolezza e di condividere la portata, radicale ribadisco, del cambiamento da realizzare. E quindi anche della pratica politica, perché prendersi cura è pratica politica. Ma è urgente elaborare ora un’idea di società, e adesso è anche il tempo delle decisioni politiche. Che tipo di sanità vogliamo? e che servizi sociali intendiamo avere di fronte all’esplodere dell’invecchiamento, oppure le esigenze dei bambini costretti a vivere il lockdown isolati in casa? Questo è il tempo delle scelte.

Eravamo ancora in lockdown quando il 2 giugno, Livia Turco, in qualità di presidente della Fondazione Nilde Iotti ha partecipato all’iniziativa di omaggio alle Madri Costituenti promossa dall’Anpi per celebrare la Festa della Repubblica. Nella lettera c’è un esplicito richiamo alle 21 donne elette nella prima assemblea democratica.

Io sono grata all’Anpi e alla nostra carissima presidente Carla Nespolo per questo straordinario 2 giugno. È stato bellissimo e importante ricordare le 21 Madri costituenti che ci hanno insegnato esattamente ciò che oggi manca alle donne: il valore del “noi”, del gioco di squadra. Vedo una pluralità di iniziative, una grande generosità, tante iniziative; ma quanto incide, concretamente, questo fare? Le Costituenti, al di là degli articoli della Carta, ci hanno lasciato in eredità una “vivente lezione”, cioè il modo di essere rappresentanti delle cittadine e dei cittadini, il legame fortissimo tra la politica e la vita delle persone, la loro capacità di essere “noi”. È possibile ricostruire questo “noi”? Io so bene che il mondo delle donne è plurale, che ci sono tanti femminili e femminismi, che esistono tante esperienze e che la pluralità è una ricchezza. Lo so bene. Pongo tuttavia questa domanda: stiamo incidendo nel modo più coerente con la nostra forza?

Come immagina ci si possa rivolgere alla coralità delle donne del nostro Paese?    

Il punto è proprio questo. Il “noi” è il popolo delle donne. Mi piacerebbe che la pluralità delle donne facesse un gesto, che battesse un colpo. Desidererei, confesso, una giornata con una grande mobilitazione delle donne. Non immagino affatto un’organizzazione femminile unica, per carità. Il “noi” che intendo è una predisposizione interiore al confronto, al costruire alleanze, è l’uscire dall’autoreferenzialità per costruire un legame con il popolo delle donne. Il richiamo alle 21 Madri è il “noi” e insieme il popolo delle donne, oggi è fondamentale la di pratica politica. Che senso ha dire “io mi prendo cura” e non essere immersi nel drammi sociali che viviamo?

Le donne italiane hanno molto combattuto e conquistato. Si tratta di passare il testimone?

Non è esattamente così. La generazione a cui appartengo la sua parte l’ha fatta, ed ora certamente deve passare il testimone ma ha il dovere di esserci ancora, ha l’obbligo della resilienza, della resistenza. Per intenderci. Nell’ultima legislatura le donne sono state protagoniste, numericamente significative, hanno fatto molte leggi, però non si è affatto percepita la forza delle donne e non si sono rese conto di quanto ancora sia lunga la strada da percorrere. È piuttosto prevalsa l’idea che bastasse l’affermazione, la consapevolezza e la bravura sul piano individuale, che fosse sufficiente fare buone alleanze con i maschi. Così non si è tentato un gioco di squadra. Invece le teche di cristallo esistono ancora in politica e adesso si ritroviamo a misurare disparità e discriminazioni. Ho sentito dire troppo spesso “Io, per la prima volta” in occasione di provvedimenti in favore delle donne. Ma come è possibile se quelle stesse battaglie le donne le hanno già portate avanti tanti anni fa? Quindi c’è stata la volontà di rompere nettamente con le generazioni precedenti. Da parte mia, credo molto nel rapporto tra madri e figlie perché ho conosciuto la bellezza di vivere questo tipo di rapporto. Penso a Nilde Iotti di cui quest’anno festeggiamo il centenario della nascita: un modello di leadership molto attuale, una grande personalità perfettamente conscia dei suoi talenti. Ma aveva sempre in mente il “noi”, le altre donne, ed è stata costante promotrice di una politica popolare. Che oggi si è smarrita. Nilde e così Giglia Tedesco, Adriana Seroni e tante altre donne del Pci avevano voluto fortemente investire sulle giovani compagne, che a loro volta non predicavano la rottamazione, sapevano ascoltare. Oggi vuol dire rimanere in campo, a prescindere da luoghi e ruoli. Non solo in politica, dove si decide, e sempre con l’umiltà della pratica.

Come ci si rivolge alle giovani, qual è il terreno di incontro?

Ricostruendo un’alleanza generazionale, questo è il tema. All’interno di una stessa radicalità di pensiero. Nilde Iotti non si definiva femminista però ci è stata accanto, eccome. Questo è il tema: ricostruire la dimensione del “noi”. Naturalmente se condividiamo il punto di partenza: la tragedia del Covid ha cambiato completamente lo scenario e le donne sono quelle che stanno pagando di più, ancora una volta. Il mondo di precarietà, irregolarità, fatica, lavoro dequalificato è soprattutto femminile. Si tratta dunque, prima di tutto, di dare dignità al loro lavoro in un mercato occupazionale drammaticamente diviso tra le poche fortunate tutelate e le migliaia di precarie. Vogliamo riprendere a ragionare sul rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita? Sull’idea che la vita è un ciclo e ogni stagione ha il diritto di esprimersi? Sulla mescolanza dei tempi della vita? La questione del tempo è cruciale, concretissima. Oggi il tempo di lavoro è diventato tiranno, prosciuga, annienta gli altri spazi esistenziali. Le donne non hanno alcuna possibilità di scelta; pur di avere uno straccio di occupazione sono costrette ad accettare condizioni pesantissime e su di loro continua a gravare la cura degli anziani e dei figli. Non dimentichiamo che nel nostro Paese i servizi sociali sono praticamente inesistenti, nonostante siano trascorsi ben 20 anni dall’approvazione della legge quadro 328 sulla rete integrata dei servizi sociali. Ciò è accaduto perché ha prevalso la cultura neoliberista, con i bonus, l’esaltazione del dono e della gratuità, dei trasferimenti monetari, con il pretesto che le persone devono essere libere di scegliere… Ecco così siamo tornati all’assistenzialismo più becero anziché avere un welfare promotore delle capacità e del benessere delle persone tirar fuori le abilità anche delle persone più fragili. E la sinistra è stata subalterna.

Un j’accuse anche alla sua parte politica.

Insisto, oggi serve un cambiamento radicale se vogliamo finalmente costruire un welfare moderno, europeo in cui i servizi sociali siano considerati un grande investimento per lo sviluppo, l’occupazione, la crescita. Di questo hanno bisogno le donne. I servizi sociali non devono mendicare briciole. Nel welfare italiano deve esserci un unico fondo sociale, basta con la frantumazione fra fondi e fondini, e livelli sociali di assistenza obbligatori in una rete integrata di servizi. I governi dell’Ulivo avevano varato una grande e utilissima riforma che avrebbe saputo rispondere anche alla crisi epocale dettata dal coronavirus, se fosse stata applicata. Serve un welfare di comunità. Chiediamocelo: vogliamo costruire davvero un’alternativa alle Rsa, dove per il Covid sono morte centinaia di anziani? Vogliamo ritrovare il coraggio che ebbe Basaglia nel chiudere i manicomi? La pandemia ha portato allo scoperto problemi che avevamo, non possiamo più permetterci di cincischiare. È arrivato il tempo della radicalità.

L’antifascismo può avere un ruolo utile in questa visione?

L’antifascismo coincide con i valori della democrazia. E sul tappeto, non nascondiamolo, c’è la necessità di far rinascere la politica. Dobbiamo dire basta alla politichetta, dare peso al Parlamento. Ho scritto di un’onda d’urto che decida l’agenda politica e di governo del nostro Paese e che dobbiamo farlo oggi. Girando l’Italia per rendere omaggio a Nilde Iotti ho incontrato tante straordinarie persone, e sono state bellissime occasioni di dialogo. Pesaro ha dedicato a Nilde i centralissimi giardini del lungomare, inaugurati alla presenza del sindaco Matteo Ricci; a Torrita di Siena la piazza principale ora porta il suo nome; a Napoli abbiamo proposto all’Assemblea degli amministratori di intitolare strade e piazze alle donne Costituenti perché Nilde non avrebbe voluto essere ricordata da sola. Ed è questa la grande lezione ancora viva e attuale delle 21 Madri: intendere la rappresentanza come strumento per dare voce a donne e uomini liberi, protagonisti del loro futuro.


Natalia Marino

da “Patria Indipendente” 

“Nilde Jotti. Madre costituente d’Italia e d’Europa”

25 Maggio, 2020 (10:40) | Interviste | Da: Redazione

Cento anni fa nasceva Nilde Jotti, partigiana, madre costituente della Repubblica, parlamentare italiana ed europea, prima donna Presidente della Camera dei Deputati, una straordinaria donna italiana il cui ricordo deve essere coltivato non solo nell’occasione, seppur solenne, del centenario.

L’impegno politico di Nilde Jotti affonda le radici nella partecipazione alla Resistenza come attivista nei “Gruppi di difesa della donna”, la struttura che provvedeva alla raccolta di indumenti, medicinali e cibo per i partigiani impegnati nella guerra di Liberazione.

La sua attenzione si concentra già allora sulla condizione della donna e sull’impegno per favorirne l’emancipazione e per dare voce alle donne emiliane, con le quali aveva condiviso gli anni difficili della guerra e con esse a tutte le donne italiane affinchè diventassero forza viva e operante nella vita politica di un Paese impegnato a rinascere. Il 2 giugno 1946 fu eletta all’Assemblea Costituente, insieme ad altre venti Costituenti anche grazie al voto che per la prima volta le donne italiane potevano esprimere, dopo una lunga attesa piena di aspirazioni che finalmente si realizzavano con il suffragio universale, maschile e femminile, autentica conquista di civiltà e dignità.

E quelle donne Nilde Jotti porterà sempre con sé, nella stesura della Costituzione, alla quale partecipò come membro della Commissione dei 75 incaricata di redigerla, rappresentandole nella tutela dei diritti, come nel discorso di insediamento da Presidente della Camera nel 1979, prima donna a ricoprire il ruolo di terza carica dello Stato, dedicando alle donne parole rimaste nella storia “Io vivo in modo quasi emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose si sono aperte la strada verso la loro emancipazione”.

Molteplici sono le ragioni per le quali Nilde Jotti va ricordata, per il suo luminoso e onesto cammino nelle istituzioni italiane ed europee, per la sua concezione di una politica alta volta alla realizzazione del bene comune, per la costante attenzione alle fasce più deboli della società, per la sobrietà, il rigore e l’eleganza del suo stile personale e politico, per la coerenza del suo pensiero e per il rispetto verso lo Stato e i suoi cittadini che la portò, dopo 53 anni di ininterrotta vita parlamentare, a dimettersi dal suo incarico per sopraggiunti problemi di salute, salutando il Parlamento con l’auspicio che lo spirito di unità che aveva guidato il suo impegno politico, prevalesse sui pericoli che si intravedevano all’orizzonte.

Nel centenario della nascita è forse giunto il momento di parlare di Nilde Jotti senza necessariamente far riferimento al suo rapporto personale con Palmiro Togliatti, guida storica del Partito Comunista. L’accostamento al nome del leader è stato talvolta ingeneroso per Nilde Jotti, il cui profilo politico, fatto di “progressione” continua, come amava definire il suo percorso, sarebbe stato lo stesso, anche senza la presenza dell’uomo che va forse ricordato innanzitutto come un amore e poi come un mentore.

Per capire l’eredità e l’attualità del suo pensiero politico, Osservatorio Roma e America Oggi incontrano Livia Turco, Presidente della Fondazione Nilde Jotti.

Chi è stata Nilde Jotti?

Nilde Jotti è stata una grande donna che ha conosciuto nella vita la sofferenza, la felicità, la forza ed è stata una madre della nostra Repubblica che ha partecipato alla lotta partigiana e alla stagione dell’Assemblea Costituente. E’ nata il 10 aprile 1920 a Reggio Emilia, in una famiglia semplice, con il padre, Egidio, ferroviere antifascista e socialista e la mamma, casalinga, antifascista, amante della lettura. I genitori furono per lei, prima e unica figlia molto attesa, fondamentali nell’educazione ai valori dell’antifascismo e della cultura. Il papà, licenziato dalle Ferrovie dello Stato perché antifascista, alla figlia raccomandava sempre di studiare, perché “loro sanno”, indicando in loro i borghesi che erano classe dirigente. E Nilde studiò, in scuole cattoliche perché il padre, pur essendo laico, preferiva i preti ai fascisti. La sua formazione avvenne in ambienti cattolici. Alla morte del padre, ottenne una borsa di studio dalle Ferrovie e si iscrisse all’Università Cattolica di Milano, diretta da padre Gemelli, laureandosi in Lettere a pieni voti. Qui conobbe figure che sarebbero poi state un grande punto di riferimento nella sua esperienza politica, a partire da Padre Dossetti con il quale conservò un rapporto durato fino alla morte del sacerdote. Conclusa l’esperienza universitaria alla Cattolica di Milano, guardando attorno a sé i disastri della guerra, capì che non bastava solo avere un sentimento antifascista ma era necessario combattere. Si iscrisse ai Gruppi di difesa della donna. Una caratteristica della sua formazione, che contò sempre molto in tutta la sua vita, era la capacità di ascoltare molte voci, il padre antifascista e socialista, la madre, le insegnanti cattoliche e la Cattolica, Don Milani, don Mazzolari, tutti preti impegnati contro il fascismo. Attratta dall’esperienza di un cugino sacerdote a cui era molto legata, che si era impegnato nel Partito Comunista clandestino insieme a tanti giovani che sacrificavano la propria vita per gli ideali, dopo aver ascoltato molte voci, scelse l’impegno nel Partito Comunista.

Inizia la storia di donna impegnata in politica, nelle istituzioni più alte dello Stato, con lo sguardo sempre rivolto alla vita e alla quotidianità delle categorie più deboli. Sono valori che le derivano dall’impegno nella Resistenza?

Le donne ebbero molte forme di impegno nella Resistenza. Nilde si occupò della condizione delle donne e dei bambini sfollati e abbandonati accolti nelle famiglie, ispirate dai valori del socialismo, di Reggio Emilia e Modena ,fasce deboli che da allora sono sempre rimaste alla sua attenzione. Nel corso di questa esperienza, assistenziale e culturale, di accoglienza e contatto con la quotidianità delle persone più fragili, maturò il suo impegno politico.

Quanto e cosa devono le donne italiane a Nilde Jotti?

Nilde Jotti ha sempre coltivato un rapporto molto intenso con le donne, sia nella vita privata che pubblica. Le donne italiane le devono la Costituzione, perché, dopo essere stata eletta all’Assemblea Costituente, fu nella Commissione dei 75 che la elaborò. Alcune pagine scritte a tutela delle donne lo sono per iniziativa di Nilde Jotti che partecipò alla elaborazione degli articoli relativi alla famiglia, l’art. 29, 30 e 31 che parlano dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e della eguale responsabilità verso i figli, di un welfare che si facesse carico dei figli di famiglie numerose. Anche l’accesso delle donne alla magistratura e l’art 48 sulla partecipazione politica hanno visto un contributo significativo di Nilde Jotti che è stata in quella occasione un grande esempio di alleanza con tutte le 21 donne costituenti che, al di là delle opposte posizioni politiche e del credo religioso, sono state un grande esempio di rappresentanza politica. Con un mirabile gioco di squadra, seppero mettere al primo posto i diritti delle donne, nel presente, per i problemi più immediati, e con una visione per il futuro, raccogliendo il bisogno di cambiamento che le donne avevano maturato partecipando alla lotta partigiana. Le donne italiane hanno tutte un dovere di gratitudine nei confronti di Nilde Jotti e delle altre 20 donne costituenti. A me piace pensarla “lei con le altre”, perche’ è così che vorrebbe essere ricordata.

Qual è stato il senso e lo stile della politica di Nilde Jotti?

L’eleganza della politica, intesa come eleganza dell’animo, della parola, come disponibilità verso le persone e anche amore per la sua femminilità, l’idea della politica come bene comune, come attenzione alle persone più fragili, come costruzione di una politica popolare in cui tutte le persone fossero partecipi e consapevoli. E’ questa la sua grande eredità. Madre costituente della Repubblica, è stata una donna delle istituzioni, entrò in Parlamento a 26 anni e lo lasciò 20 giorni prima di morire. Prima donna Presidente della Camera, per 13 anni, 3 legislature, dopo due giganti della politica, Sandro Pertini e Pietro Ingrao. Una eredità impegnativa a cui arrivò con la sua grande esperienza politica e istituzionale e con una visione chiara della rappresentanza, per cui chi era nelle istituzioni era contemporaneamente nella società, attento ai movimenti sociali e attento alla vita delle persone. Deriva anche da questo il suo impegno tenace per le riforme istituzionali, per avere un parlamento che fosse molto efficiente.

E’ stata madre costituente d’Italia ma anche d’Europa?

Nilde Jotti è anche madre dell’Europa, costruttrice dell’Unione Europea dal 1969, quando partecipò come delegata del Partito Comunista al Parlamento Europeo, dove fu eletta e restò parlamentare fino al 1979 quando divenne Presidente della Camera. Ha contribuito sempre a promuovere la costruzione del Parlamento Europeo, come parlamentare europea ma anche da Presidente della Camera perchè era solita trovare occasioni per riunire i Parlamenti dei vari Stati e continuare a costruire l’Unione europea. Si battè sempre affinchè il Parlamento europeo avesse molti poteri, necessari per costruire l’unione politica europea. Una lezione molto moderna.

Lo stile di Nilde Jotti, fatto di rigore ed eleganza, è un modello oggi replicabile?

Avremmo molto bisogno di imparare da lei per realizzare una politica rispettosa degli altri, che abbia al primo punto il bene comune, che sappia guardare al mondo globale, creare connessioni, capace di stare accanto alla gente in difficoltà, elaborando al contempo un’idea di società. Nilde Jotti è una fonte di ispirazione per una politica oggi assolutamente necessaria.

La Fondazione Nilde Jotti come rende concreta l’eredità del suo impegno e del suo pensiero politico?

Nilde Jotti è stata protagonista di alcune grandi battaglie sui temi della famiglia, il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, sostenendo noi, giovani compagne come amava chiamarci, per la legge contro la violenza sessuale, per l’inserimento delle quote nelle liste elettorali e nelle lotte su temi inediti. Era una donna con una grande autorevolezza, con una sua storia ma aveva molta curiosità verso la nuova generazione di donne. La Fondazione ha cercato in questi anni di ricostruire la sua memoria, che ricorderemo in questo centenario appena possibile, pubblicando biografie di Nilde Jotti, i suoi discorsi parlamentari legati alle battaglie che fece per le donne che sono sul sito della Fondazione, libretti stampabili che tutti possono leggere. In occasione del 70° anniversario del voto alle donne, abbiamo ricordato, con Nilde Jotti, tutte le madri costituenti, perché il nostro Paese non ha solo padri ma anche madri della Repubblica.

Qual è stato per Nilde Jotti l’appuntamento più importante con la storia, personale e politica?

Il suo grande amore per Palmiro Togliatti, profondo e sofferto, prima ostacolato e poi interrotto bruscamente quando Togliatti mancò a soli 64 anni, lasciandola, giovane, a vivere una condizione di profonda solitudine, con la figlia Marisa che avevano adottato. “Noi siamo una strana famiglia, uno strano marito, una strana moglie, una strana figlia ma siamo una famiglia molto unita, perché quello che ci unisce è la forza degli affetti”, con queste parole Nilde Jotti raccontava la sua famiglia. Questo dato della sua esperienza privata è stato così dirompente che ha inciso nel suo impegno nella legislazione per il diritto di famiglia. Il suo discorso memorabile in occasione della legge sul divorzio, fu incentrato sulla volontà di avere una famiglia basata sulla solidità e la forza degli affetti. Privato e politica si incontravano. Nilde Jotti viveva la politica con molta sobrietà, credo che il discorso di insediamento alla Camera sia stato uno dei momenti più alti nella sua esperienza politica e come vissuto personale, dove lei metteva a frutto tutti i suoi talenti, la cultura, la mediazione nel rapporto con le persone, la competenza istituzionale, il legame con le donne. Altro momento di incontro con la storia è stata certamente l’esperienza all’Assemblea Costituente che lei definì “la più grande scuola politica a cui io abbia avuto occasione di partecipare in tutta la mia storia politica”.

La vita politica di Nilde Jotti si conclude nel novembre 1999 con le sue dimissioni da parlamentare per gravi motivi di salute. Un atto responsabile e nobile di chi vive la politica a servizio dello Stato e dei suoi cittadini. Una signora della Repubblica anche in questa ultima scena?

Si, certamente. La signora della Repubblica la ricordo quando pur malata, sedeva ogni giorno sul suo scranno a Montecitorio, erano gli anni dell’Ulivo, la prima volta della sinistra al Governo, nei mesi in cui io ero ministro per la Solidarietà sociale e quando entravo in Parlamento, cercavo sempre il suo sguardo, sofferente ma luminoso, orgoglioso e materno, che mi dava molta forza e che porto sempre nel cuore. La signorilità l’ho vista non soltanto nel gesto finale ma l’ho vissuta sempre, una signorilità che mi fa piacere ricordare insieme alla grandezza di Nilde Jotti.

Maria Teresa Rossi

Intervista pubblicata su Osservatorio Roma

Europee, perché “l’Ue conviene alle donne”

4 Maggio, 2019 (17:38) | Interviste | Da: Redazione

 “Le partita europea è una partita sui diritti delle donne ed è importante che le donne ne abbiano consapevolezza e ne siano protagoniste”. E’ il messaggio che Livia Turco, presidente della Fondazione Nilde Iotti, intervistata dall’agenzia Dire, lancia alle istituzioni e alla società civile sulle prossime elezioni europee e che sarà al centro del convegno ‘L’Europa delle donne’ che si terrà sabato 4 maggio a Roma alla Casa internazionale delle donne alla presenza, tra gli altri, di Francesca Koch, presidente della Casa internazionale delle donne, di Silvia Costa, europarlamentare, e Pia Locatelli, vicepresidente dell’internazionale socialista.

“L’Europa conviene in modo particolare alle donne” secondo Livia Turco, basta pensare a tutte le conquiste che sono arrivate dall’Unione Europea: “Gli impulsi dati dalle direttive, quelle sul congedo parentale e sulla parita’ salariale” pur “con tutti i burocratismi e le criticita’ che vanno superati. Non dimentichiamo- aggiunge ancora- che le donne sono state madri costruttrici dell’Europa, e non parliamo solo di politiche”.

Si dice stupita Livia Turco quando pensa che uno strumento cosi’ importante come “la Carta europea dei diritti umani fondamentali, che all’articolo 23 ha proprio la promozione delle pari opportunità, venga sempre trascurata eppure è una carta cogente a tutti gli effetti per la quale si puo’ ricorrere alla corte di giustizia europea”.

In gioco nelle prossime elezioni europee c’è il modello di Europa che si vuole e proprio in tal senso le donne possono giocare un ruolo chiave. “E’ importante- ribadisce Livia Turco nel corso della sua intervista- che non vincano i sovranismi perché in tutti i paesi in cui c’è sovranismo assistiamo ad un arretramento dei diritti e questo le donne lo devono sapere“.

Lo scenario italiano, secondo Turco, è quello di “un governo che sta proponendo uno spaventoso arretramento culturale in cui i maschi parlano come se le donne non esistessero, che sta riproponendo la vecchia divisione dei ruoli, ma del resto bisogna pur dire che l’Italia è un paese particolarmente maschilista”, se pensiamo al ddl Pillon poi, dichiara senza mezzi termini: “Lì siamo all’obbrobio”.

“Democrazia ed eguaglianza” sono i due pilastri concettuali sui quali deve stare il futuro politico dell’Europa. Le donne devono essere protagoniste del cambiamento che parte da “piu’ indennità di welfare, maggiore democratizzazione, piu’ forme participate, ma certamente piu’ Europa”. Così come sul tema dell’immigrazione e dell‘integrazione “dovremo riconoscere- continua ancora- che bisogna trovare una nuova strada tra multiculturalismo e assimiliazionismo. Non basta riformare Dublino, ma ragionare su una forma nuova di convivenza e questo è un tema sparito dal dibattito di tutte le forze politiche”. Anche questa è una partita politica che le donne devono giocare. “Quale Europa lascio a mio figlio? Unita nella diversita’” secondo Livia Turco, che non risparmia il governo: “Raccontano frottole sullo stop agli sbarchi, ma invece aumentano i morti in mare”, “stanno aumentando l’irregolarita’, hanno bloccato le quote”. E quanto alla sicurezza e alla difficile prova dell’integrazione e della convivenza Turco ricorda “che se si fa come la sindaca Virginia Raggi, che decide di portare i rom in quartieri già disperati, allora lì manca proprio l’A, B, C della politica”.

Nel convegno di sabato sulla ‘Europa delle donne’ si parlerà di “lavoro, formazione, congedo dei padri, lavoro di cura e queste- spiega Livia Turco- sono le grandi questioni dell’Italia e dell’Europa che vogliamo mettere al centro dell’agenda politica”. Durante la durissima crisi economica “le donne hanno retto benissimo, con una catena generazionale fatta di nonne, madri e figlie con le quali sostituito il welfare e preso il posto dei tanti uomini disoccupati. Questa forza femminile va rivendicata. Le donne sono resistenti e resilienti”.

Sulla leadership e la sensazione che le donne siano a rimorchio dei leader maschi ammette che “c’è ancora una doppia difficoltà da parte delle donne: l’autostima e una difficoltà tutta attuale a costruire trasversalità e lavoro di squadra. La storia insegna che le donne hanno vinto sempre cosi: unendosi’”.

In questi giorni in cui la cronaca racconta di un’ennesima violenza sessuale Turco ricorda “la legge del 1996 grazie alla quale la violenza sessuale divenne reato contro la persona. Noi di sinistra- aggiunge Turco- ne eravamo state protagoniste, ma la relatrice fu Alessandra Mussolini”. “Sì esiste un nuovo femminismo- riconosce Turco- lo vedo nelle giovani. Un femminismo non separatista che ha anche argomenti nuovi come l’ambiente. Ma c’è anche la mia generazione che continua a combattere e che è abituata alle grandi battaglie”. La Fondazione Nilde Iotti che sul testamento di questa figura porta avanti una missione di “valorizzazione del patrimonio culturale e costituzionale” crede nel messaggio dell’”unità e delle alleanze”. Ma attenzione perché “il gioco di squadra non è un pranzo di gala”.

Silvia Mari (Agenzia Dire)