Il Blog di Livia Turco

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Month: Ottobre, 2011

La Chiesa e la cultura di sinistra

6 Ottobre, 2011 (14:04) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

Di seguito l’articolo di Livia Turco pubblicato su L’Unità di oggi.

Credo sia utile tornare sul discorso pronunciato dal cardinale Bagnasco nel corso dell’ultimo consiglio permanente della Conferenza episcopale. L’aspetto che più mi ha colpito della prolusione del presidente della Cei è la cosiddetta “visione antropologica”, la critica all’individualismo ed al radicalismo. «Sarà bene anche affinare l’attitudine a cercare, sotto la scorza dei cambiamenti di breve periodo, le trasformazioni più profonde e durature, consci, tra l’altro, che una certa cultura radicale al pari di una mentalità demolitrice tende ad inquinare ogni ambito di pensiero e di decisione. Muovendo da una concezione individualistica, essa rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale. Per questo, dietro una maschera irridente, riduce l’uomo solo con se stesso e corrode la società, intessuta invece di relazioni interpersonali e legami virtuosi di dedizione e sacrificio».
Tale visione è coniugata a quel “c’è bisogno di purificare l’aria”, il richiamo duro alla questione morale, l’investimento sui giovani indicati come i veri protagonisti della riscossa del nostro Paese. Questa visione antropologica dell’uomo relazionale, della persona che riconosce la sua dipendenza dall’altro e del suo bisogno di comunità, di relazioni umane significative, costituisce il nucleo di una elaborazione che è stata rilanciata in questi ultimi anni dalla Chiesa, è stata al centro dei documenti delle Settimane Sociali. Personalmente lo considero un approccio molto fecondo. Farebbero bene le diverse culture politiche a collocarsi su questo piano della discussione e della sfida.
Che cosa significa questa proposta per la cultura della sinistra? Io credo, mettere in discussione una concezione dei diritti che talvolta si è basata su una visione riduttiva della libertà personale e dell’autodeterminazione. Riduttiva quando non ha saputo cogliere ciò che è di fronte ai nostri occhi e vive nella nostra esperienza: il bisogno dell’altro, il legame di interdipendenza tra le persone come nutrimento della libertà e dell’autonomia individuale.
Bisogna dunque aggiornare la cultura dei diritti collegandola alla responsabilità e alla valorizzazione dei legami umani. Diritto non è solo ciò che aspetta e compete a ciascuna persona in nome del valore universale della dignità umana ma anche ciò che ciascuno è chiamato a dare e fare per gli altri in quanto componente della comunità. Diritto è sentirsi parte di una comunità, è servirla perché questo senso attivo di appartenenza è parte integrante della dignità umana. Ha ragione Francesca Izzo (l’Unità, 3 ottobre) quando afferma che la ridefinizione della cultura dei diritti e della libertà individuale deve basarsi sul riconoscimento della differenza sessuale, della libertà femminile e di quanto è stato pensato dalle donne.
Se questa è l’evoluzione che deve compiere e sta compiendo la cultura della sinistra e del Pd, una domanda va posta alla Chiesa: questa critica all’individualismo e al radicalismo contiene forse un “non detto” secondo cui radicalismo e individualismo sono storicamente e ontologicamente identificabili con la sinistra? Oppure la Chiesa propone una visione dell’uomo e della società che interroga tutte le culture politiche? Per esempio, costituisce una critica alla società consumista ed edonista al relativismo etico che nell’ultimo ventennio è stata propinata dal berlusconismo; o a quella visione della ineluttabilità della diseguaglianza umana e sociale, quel timore della diversità umana che contraddistinguono le culture politiche del centrodestra?
Insomma, la sfida della responsabilità e del bene comune proposta dalla Chiesa è feconda se sollecita un’azione rigeneratrice e una ricerca innovativa in tutte le culture politiche, se costituisce lievito che alimenta tutti ed è a disposizione di tutti e non se, in modo indiretto e tacito, segna campi e confini di appartenenza politica che questa volta scaturirebbero da valutazioni addirittura antropologiche. Come a dire la sinistra è irrimediabilmente individualista e radicale e dunque incompatibile con un umanesimo autenticamente cristiano e quindi luogo improprio per un cattolico. Pongo tale questione perché sono convinta che la sfida della responsabilità e del bene comune, la riproposizione dell’uomo in relazione con l’altro non è solo il ritorno ad una visione tradizionale della Chiesa e della pastorale cattolica. Non è solo la riproposizione di un nucleo antico e permanente del pensiero cattolico ma contiene una lettura dell’esperienza umana che dovrebbe coinvolgere tutti noi. Per questo è importante misurarsi con essa, farsi guidare per capire le domande profonde dell’uomo moderno e per cercare di aggiornare il linguaggio e la cultura della politica.

Livia Turco

Il welfare tansnazionale: prefazione agli atti del convegno

4 Ottobre, 2011 (17:41) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

Anticipiamo la prefazione di Livia Turco al volume in via di pubblicazione che raccoglie gli atti del convegno “Migrazione, Sviluppo e Welfare. La frontiera esterna delle politiche sociali”, svoltosi a Roma il 24 febbraio scorso e promosso dalla Provincia di Roma, il Laboratorio “Atlante” e dal Cespi.

La trasnazionalità è la condizione del migrante che viene da noi e vuole restare legato al suo paese ed alla sua famiglia d’origine per aiutarli e contribuire alla loro crescita economica e sociale.
Da stato di necessità, la transnazionalità  sta diventando un nuovo modo di guardare ai problemi dell’integrazione sociale e dello sviluppo e di progettare le soluzioni.
Un nuovo sguardo, un tratto dell’identità personale, dell’esperienza sociale e delle strategie di sviluppo.
Fino ad ora le politiche di cosviluppo e di valorizzazione della transnazionalità si sono concentrate sulle risorse economiche. Questo volume avanza la proposta di un welfare transnazionale.
A partire da una concezione della sicurezza intesa non solo come sicurezza dei confini attraverso efficaci politiche di collaborazione tra i paesi  per il contrasto dell’immigrazione clandestina ma come promozione del benessere delle persone.
Promuovere politiche sociali transnazionali, basate sulla cooperazione e collaborazione tra qui e là, di istituzioni, associazioni, famiglie, significa promuovere un benessere duraturo.
Le politiche sociali sono quelle che accompagnano le persone e le famiglie abbattono gli ostacoli, combattono le discriminazioni, favoriscono l’integrazione.
Tali politiche sono efficaci quando fanno leva sulla capacità delle persone, valorizzano ed attivano le loro relazioni umane e sociali, favoriscono le costruzioni di reti.
Se la persona è accompagnata fin da quando parte e lascia il suo paese – attraverso l’apprendimento della lingua, la competenza professionale, il bagaglio di informazioni – tanto più si inserirà facilmente nel nuovo paese di arrivo.
Quanto più si integra nella società di destinazione tanto più sarà capace di contribuire allo sviluppo del suo paese d’origine.
Le politiche sociali transnazionali hanno il loro fulcro nell’utilizzo efficace delle risorse in quanto puntano ad attivare tutte le capacità delle persone e dei loro contesti di vita.
Fanno leva sulle relazioni umane, sociali, economiche, istituzionali e puntano a costruire reti di relazione per dare forza alle persone ed utilizzare in modo efficace ed oculato tutte le risorse di cui un territorio dispone.
Le politiche sociali transnazionali sono locali, radicate nei territori,sono partecipate, ma sono sostenute da infrastrutture e reti nazionali.
La cultura della legge quadro 328/2000 “Norme per un sistema integrato di servizi e prestazioni sociali” proprio perché valorizza la partecipazione dei soggetti, promuove l’alleanza ed il gioco di squadra tra professioni, famiglie, istituzioni, punta all’integrazione delle opportunità – sociali, lavorative, scolastiche -, contiene lo sguardo adatto e l’approccio giusto per promuovere il welfare transnazionale, per favorire qui e là le reti di relazioni e per connetterle tra di loro.
Le belle  esperienze raccontate in questo volume testimoniano di quanto sia utile sul piano umano e su quello economico prendere in carico la persona e la famiglia fin dal momento della partenza e mantenere con quale luogo medesimo e con le relazioni in loco un rapporto costante . Questo presuppone la possibilità delle persone di circolare e dunque di promuovere il diritto alla mobilità e anche la portabilità dei diritti
Le politiche sociali transnazionali sono foriere di pensieri nuovi, creano legami umani intensi, arricchiscono le competenze.
Promuovono – qui e là – uno sviluppo umano. Per questo vanno incoraggiate.

Livia Turco
 

A Lampedusa, prima che la crisi degenerasse

4 Ottobre, 2011 (17:18) | Post | Da: Livia Turco

Partii una mattina, nel mese di maggio, per andare a Lampedusa. Decisi una visita informale per vedere con i miei occhi ed ascoltare con le mie orecchie quanto stava accadendo.
Mi sembrava impossibile che l’Italia non riuscisse ad accogliere quel numero di tunisini, che dopo un anno secondo le cifre ufficiali del Ministero, è di 50.000 (compresi i profughi dalla Libia).
All’aeroporto vennero ad attendermi i responsabili del circolo PD di Lampedusa, molto attivo nell’accoglienza e che lavorava con le associazioni ed i gruppi di volontariato sul territorio.
Durante il tragitto in macchina mi aggiornavano di quanto era successo.
I giovani tunisini che erano venuti in Italia come transito verso gli altri paesi europei per cercare lavoro erano ragazzi miti, perbene che chiedevano aiuto alla popolazione.
E la popolazione di Lampedusa gliel’aveva data.
I lampedusani avevano accolto quei giovani come fossero parte della loro famiglia.
Anche perché si vergognavano delle condizioni in cui li aveva abbandonati lo Stato e della totale indifferenza del governo.
Infatti, erano lì da giorni e giorni, rimanevano sul porto, senza essere identificati.
I racconti erano commoventi: i lampedusani offrivano loro cibo, coperte, ma anche sigarette giochi  in comune per allentare la tensione.
Ma con il trascorrere del tempo in entrambe le parti cresceva l’indignazione e il disagio per le condizioni di abbandono in cui erano lasciati.
Lampedusa è un luogo di transito. Il Centro di accoglienza che era diventato una eccellenza in Italia ed Europa funzionava come prima accoglienza ed identificazione ma non di permanenza delle persone. Altrimenti, in breve tempo l’isola sarebbe scoppiata.
Con la macchina attraversai la città e arrivai al Porto. Lungo la strada incontrammo frotte di giovani che camminavano per l’Isola.
Era impressionante vedere questa marea di giovani che camminavano veloci, senza meta, alla ricerca di qualcosa che non sapevano. Mi colpì la velocità del passo, la determinazione negli sguardi ma anche la grande tristezza degli occhi. Camminavano in una terra bellissima, ma attorno ad essa c’era solo il mare. Bellissimo, ma nemico perché quello che volevano quei giovani era attraversarlo ma non sapevano come.
Arrivammo al Porto. Immagini di desolazione umana che non potrò dimenticare e che ho denunciato ripetutamente nell’Aula parlamentare.
In uno spiazzo assolato migliaia di persone stipate, in piedi. Per dormire potevano contare sulle coperte che portavano loro i lampedusani, a partire da Don Stefano, dalla chiesa e dalla Caritas che per tutta la notte camminavano tra quei disperati per dare loro un po’ di conforto e per evitare che si accendesse la scintilla dello scontro.
La presenza dello Stato era visibile in 3 bagni chimici, una tenda della Croce Rossa per le emergenze sanitarie, la presenza (ammirevole) dei poliziotti esposti alla esplosione della rabbia, e poi sacchetti gettati all’ora di pranzo e cena contenente un panino, un po’ di riso ed una bottiglia di acqua minerale.
Visitai il Centro di identificazione, anche esso stipato, ed i centri dia accoglienza dei minori.
I lampedusani si erano davvero sostituiti allo Stato nella gara di solidarietà ma anche per garantire la sicurezza.
All’ora di pranzo raggiunsi la Caritas, Don Stefano, c’era anche Oliviero Forti. Mi raccontarono della solidarietà della gente ma di quanto fosse ormai diventata insostenibile la situazione, come non fosse più possibile tenere stipate migliaia di persone su quello spiazzo. Com’era dura la notte perché per coricarsi e dormire un po’, lo spazio non bastava, c’era bisogno di almeno una coperta, l’aria cominciava a diventare fetida per la puzza.
Potevano scatenarsi conflitti duri. Fino a quando ce l’avrebbe fatta la gente, il volontariato, la chiesa? Bisognava subito identificare e portare via quelle persone.
L’Italia aveva conosciuto emergenze molto più consistenti e maggiori che non 20.000 tunisini ma il governo italiano li ignorava, volutamente, deliberatamente.
Aveva predisposto un piano di accoglienza di ipotetici 50.000 profughi che sarebbero dovuti arrivare dalla Libia, ma non faceva nulla per i tunisini che erano lì, perché erano clandestini e bisognava esibire il pugno di ferro.
Il messaggio di Don Stefano fu chiaro: i lampedusani sono stati meravigliosi, hanno insegnato all’Italia che cos’è l’accoglienza e la dignità umana, ma ora non ce la fanno più. I tunisini che sono sul porto vanno identificati e lasciati raggiungere le loro famiglie, oppure accolti qui da noi su tutto il territorio nazionale.
Nel pomeriggio incontrai altre associazioni di volontariato, e poi andai in comune a salutare il sindaco, i consiglieri comunali e lì assistetti ad una discussione concitata su come proseguire la solidarietà, che però era diventata insostenibile e su come farsi sentire dallo Stato.
Le opinioni tra loro divergevano ed io non ero in grado di dare un contributo se non prendermi l’impegno di riferire in Parlamento quanto avevo visto ed ascoltato, protestare con il governo e proporre delle soluzioni
Così feci. La soluzione che proponemmo, un permesso umanitario temporaneo previsto dalla legge in vigore e sperimentato dal governo D’Alema durante il dramma dei Balcani, aveva funzionato allora, poteva funzionare ora.
Questa volta il governo ha accettato un suggerimento dall’opposizione ed ha applicato ai tunisini il permesso umanitario temporaneo, pur tra mille polemiche e contraddizioni e facendosi anche rimproverare dall’Europa.
Quel pomeriggio mi ha insegnato tante cose soprattutto quanto è dura in determinate circostanze la pratica della solidarietà ma quanto essa sia ineludibile ed insostituibile.
Per garantire la dignità umana.
Livia Turco