Il Blog di Livia Turco

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Month: Gennaio, 2016

Sì a stepchild adoption ma no ambiguità su utero in affitto

20 Gennaio, 2016 (10:29) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Mi auguro con tutto il cuore che il Parlamento approvi finalmente la legge sulle Unioni Civili sanando così discriminazioni ed ingiustizie verso persone che hanno il solo torto di amarsi con molta intensità.

Spero sia approvata anche la norma che prevede l’adozione co-parentale (Stepchild adoption), il figlio naturale di uno dei due genitori. Come avete ben illustrato su VITA si tratta dell’applicazione di una norma già esistente nel nostro ordinamento, l’articolo 44 della legge sulle adozioni.

Ciò che chiedo al legislatore è di formulare questa norma in modo rigoroso che non dia adito, seppur indirettamente alla pratica dell’utero in affitto.

Rispetto ai temi della procreazione, della genitorialità e più in generale sulle questioni che attengono alla vita ed alla morte ho maturato l’importanza di tre discrimini valoriali: l’amorevolezza concreta nei confronti delle persone; la coscienza del limite verso le nuove tecniche: non tutto quello che si può si deve fare; la maternità non è un diritto ma l’esercizio di una responsabilità.

Nelle scelte concrete mi faccio illuminare da questi valori. L’amorevolezza concreta nei confronti delle persone mi induce a guardare con sguardo, mente e cuore, partecipe alle nuove coppie ed ai nuovi genitori che si amano con grande intensità e che crescono con grande amore i propri figli, coppie i cui legami durano nel tempo , sono intensi e suscitano commozione nel vederli. Perché discriminali, non riconoscerli solo perché gay e lesbiche? Perché non riconoscere a queste coppie la possibilità di adottare il figlio del partner?

Il valore della coscienza del limite nei confronti delle nuove tecniche e la consapevolezza che la maternità non è un diritto ma l’esercizio di una responsabilità mi fa dire un no netto, forte, intransigente contro la maternità surrogata o utero in affitto.

Un no netto perché questa pratica stravolge e cancella anni di elaborazione delle donne che si sono liberate dall’idea della maternità come fatto biologistico, del grembo materno come puro contenitore naturale su cui altri potevano decidere, si sono liberate dallo stereotipo della maternità come destino da subire per elaborare invece l’umanità e la bellezza della maternità. Umanità che inizia proprio dal grembo materno che non è solo grembo fisico ma psichico in cui inizia la relazione tra madre e figlio. Relazione di primaria importanza che nutre il figlio nella sua formazione ma che resterà nel tempo ed accompagnerà la sua crescita. La relazione madre figlio che si forma nel grembo materno è fonte di umanità non solo per la crescita di ciascun figlio ma perché paradigmatica di una visione antropologica., quella che riconosce la centralità delle relazioni umani, che fonda la libertà individuale sul riconoscimento della dipendenza di ciascuna persona dall’altro, per cui la libertà è riconoscimento del legame e della responsabilità che ci unisce all’altro. Questo vale soprattutto nella procreazione. Mettere al mondo un figlio non è un diritto ma l’esercizio di una responsabilità. Il sacrosanto desiderio ad avere un figlio non può essere esercitato ad ogni costo ma deve tenere conto di come crescerà il figlio. Per questo non bisogna guardare solo alle tecniche che possono offrire la possibilità di una maternità ma a problemi troppo trascurati come la crescita della sterilità dovuta tante volte ad un un orologio sociale che non tiene conto dell’orologio biologico per cui i giovani che non trovano lavoro e non possono essere indipendenti possono scegliere un figlio secondo un tempo sociale che stravolge il tempo biologico.

La bellezza della relazione materna che si forma a partire dal grembo materno è che essa cresce dentro di sé il figlio che è altro da sé, è un altra persona ed il compito genitoriale è insegnare a quel figlio di imparare a stare al mondo in modo autonomo. L’immagine della madre curva sul figlio piccolo che gli insegna a camminare e dunque ad allontanarsi da sé per andare da solo nel mondo è una metafora bellissima dell’etica della maternità. L’etica di una libertà responsabile che elabora il legame di dipendenza dall’altro come parte della a autonomia e libertà individuali . Questa etica della maternità credo costituisca un ingrediente importante di un etica pubblica , di un senso civico, che abbia al centro la cura delle persone e la presa in carico delle persone.

Tutto ciò viene stravolto da una pratica che considera il grembo materno grembo fisico che si può comprare per fare un figlio che sarà separato dalla madre e che la madre cresce nel suo grembo sapendo che tra loro non ci sarà nessuna relazione.

Pratica tanto più degradante e disumana quando questa donna porta in grembo il figlio per combattere la sua condizione di povertà. Non solo cresce un figlio con il quale non avrà nessuna relazione ma lo fa, separandosi per mesi dagli altri figli, dalla famiglia, reclusa in centri ad hoc, con la consapevolezza che ciò che porta in grembo non è parte del suo amore ma un oggetto che gli serve per avere i soldi per continuare a vivere.

Tutto ciò è disumano e noi donne dell’occidente benestante, patria dei diritti umani e dei diritti delle donne, della dignità femminile dovremmo con cuore e mente indignati opporci con tutte le nostra forze. Anche se queste donne sono lontane dal nostra sguardo immediato dovremmo dotarci di una vista più acuta e di un pensiero più lungimirante, avere un cuore più generoso. Per dire no a questa forma barbara di sfruttamento del corpo della donna e di cancellazione della libertà e dignità femminile.

Quando si tratta di dignità umana il mondo non ha confini, e, poi, il mondo è già in casa nostra.

Livia Turco

Pubblicato su “Vita” il 20 gennaio 2016

Le donne e l’immigrazione. Una riflessione dopo i fatti di Colonia

18 Gennaio, 2016 (09:50) | Blogroll | Da: Redazione

Dopo Colonia, nulla è più come prima. Ha ragione Lucia Annunziata, ci vuole chiarezza, profondità e coraggio nell’analisi. Non possiamo consegnare ai nostri figli e figlie un mondo in cui la violenza sulle  donne sia considerato strumento per combattere la nostra civiltà. Dobbiamo essere intransigenti nei confronti dei nostri uomini  e fermare stupri e violenze altrimenti non saremmo autorevoli nel pretendere severità inflessibile verso tutti. La libertà femminile deve diventare il paradigma di ogni civiltà e deve orientare le politiche di governo dell’immigrazione e della convivenza.

 

Fino ad ora questa consapevolezza  e questa scelta, nel nostro Paese, non è stata compiuta anche se  le politiche attuate dal centrosinistra hanno promosso pari diritti e doveri  tra italiane ed immigrate e proponevano un modello di integrazione innovativo. Ma le leggi e le politiche non sono tutto, contano prima di tutto la cultura, i messaggi culturali  e simbolici, i fatti politici che si costruiscono,  contano le relazioni umane.

 

Ed allora  mi sia consentito sollevare una questione prima di tutto alle donne progressiste, di sinistra, femministe (di ogni generazione a partire dalla mia). L’Italia è ormai un paese di immigrazione e fin dall’inizio essa è stata quasi per metà composta da donne. Le donne italiane nella società son state eccellenti autrici della  convivenza: le insegnanti nelle scuole, le mediche ed infermiere negli ospedali, le religiose salvando le donne sfruttate sulle strade, autorevoli studiose che hanno aiutato a costruire buone politiche, donne nei sindacati  e nelle associazioni,  imprenditrici. Ma la politica delle donne e le donne nella politica hanno   ignorato  questi processi.

 

Poche hanno scelto di battersi in modo esplicito per cercare di imporre nella dimensione pubblica un altro alfabeto rispetto a quello martellante e perdurante nel tempo che ha creato tanti danni al nostro Paese: siamo invasi  dai clandestini. Basta guardare all’associazionismo femminile: rigorosamente organizzato su base etnica, tranne rare e belle eccezioni, da una parte le associazioni femminile italiane dall’altra quelle delle donne immigrate. Se vogliamo che la libertà femminile diventi paradigma delle politiche di governo dell’immigrazione e di integrazione dobbiamo esserci con il massimo di impegno in prima persona. Fare la fatica di andare a cercare le  immigrate invisibili, quelle che hanno raggiunto i loro mariti ma sono chiuse in casa e non conoscono la lingua italiana.

 

Costruire una relazione con le donne di religione islamica per conoscere da vicino i loro pensieri, le loro vite, le loro differenze ed i conflitti che attraversano la loro comunità. Il fatto politico nuovo che dobbiamo costruire  è una alleanza tra italiane, europee ed immigrate nella scena pubblica per imporre finalmente nell’agenda politica del nostro paese ed in quella europea il tema cruciale: “Come  stiamo insieme noi e loro? Come costruiamo convivenza?”.  Nella consapevolezza che dobbiamo costruire strade nuove rispetto alle esperienze del multiculturalismo e dell’assimilazionismo. 

 

L’alternativa non è tra un Europa con gli immigrati ed un Europa con i soli  europei.  Avremo bisogno degli immigrati perché abbiamo smesso di fare figli e questo non sembra essere un problema per molte di noi e non è un problema per la politica. La nostra economia avrà bisogno di giovani e verranno in tanti soprattutto dall’Africa. Dunque dobbiamo avere il coraggio della verità. Servono  pene  severe per chi delinque e meccanismi di espulsione più rapidi ed efficaci. Ma al nostro sentimento di insicurezza dobbiamo anche dire che la scelta vera che dobbiamo compiere è tra un Europa popolata da europei ed europei con il trattino (Italo–marocchino, italo-cinese  ecc..) che non solo rispettano le nostre regole  ma si innamorano dei nostri valori ed un Europa composta da tribù di popoli e culture, l’uno accanto all’altro, che non si parlano, non si conoscono, offrono le loro braccia ed il loro lavoro perché solo questo noi gli chiediamo ed in cambio  utilizzano  le nostre opportunità.

 

Quest’ultima  è in gran parte l’integrazione fino ad ora realizzata. Per costruire la nostra sicurezza  dobbiamo costruire l’Europa abitata da europei ed europei  con il trattino che  si innamorano dei nostri valori  e rispettano le nostre regole. Il tema è come garantire i diritti fondamentali della persona, esigere pari doveri ed al contempo garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto  le loro rispettive posizioni in modo pacifico, e soprattutto possano  trovare il consenso attorno ai limiti  in cui possono esprimerle.

 

L’accettazione da parte di chi è portatore di una particolare cultura del nucleo fondamentale di valori del paese ospitante è la soglia al di sotto della quale non è possibile  accogliere alcuna richiesta di riconoscimento a livello istituzionale, cioè  pubblico, di quella cultura. Al di sopra di quella soglia il compito da assolvere da parte delle istituzioni e dei corpi intermedi  è quello di discernere ciò che di una cultura è tollerabile, da ciò che è rispettabile, da ciò che è condivisibile e può,  dunque, essere accolto dal nostro ordinamento.

 

La strada da seguire credo sia quella “dell’integrazione politica”, promuovendo il coinvolgimento attivo delle persone immigrate nella polis per sollecitarle ad assumersi delle responsabilità verso la vita della nostra comunità. Costruire insieme obiettivi comuni per migliorare la vita di tutti. Attraverso la discussione pubblica ed il reciproco confronto in cui ciascuno porta il suo patrimonio di valori ed il suo differente punto di vista. Lo sottopone al setaccio dei nostri valori irrinunciabili, per costruire nuove sintesi sui temi concreti del governo della comunità. Per fare questo ci deve essere uno spazio pubblico in cui tutti possano dialogare tra di loro e tutti siano chiamati all’esercizio della democrazia. Le persone immigrate devono essere coinvolte nella dimensione pubblica, non essere considerate semplice forza lavoro ma, persone, con diritti e doveri e con  la possibilità di esercitare la partecipazione politica. Questo è il vero terreno che costruisce insieme l’inclusione sociale e la sicurezza perché attiene all’esercizio della responsabilità.

 

Avanzo una proposta. Dopo essere  andate tutte a Colonia a manifestare con le donne tedesche  il valore della libertà femminile, sarebbe utile ed interessante che le donne Parlamentari attivassero un “tavolo di lavoro permanente”  cui invitare  le più importanti associazioni di donne italiane e di donne migranti. Per esercitare concretamente la convivenza. Per discutere e confrontare  le  politiche  da scegliere per realizzarla.

 

Livia Turco

Sulle Unioni Civili

10 Gennaio, 2016 (10:51) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

E’ molto importante  che il Parlamento approvi subito una legge sulle Unioni Civili consentendo così, finalmente, a persone dello stesso sesso di vivere una vita dignitosa, cancellando discriminazioni profondamente ingiuste. E’ importante il dibattito che si è aperto nel PD che vede posizioni diverse  esprimersi e confrontarsi con reciproco rispetto e pacatezza. Proprio perché apprezzo lo sforzo delle senatrici e dei senatori e del gruppo dirigente del PD scrivo per porre quesiti al fine  di rendere chiare le  scelte compiute (almeno per me).


Vorrei, in premessa, ricordare a noi tutti l’esperienza di leggi come il diritto di famiglia, il divorzio l’aborto, contro la violenza sessuale. Ci insegnano, nella loro concreta applicazione, che  è fondamentale la limpidezza dei valori e dei principi cui la legge si ispira  e la  chiarezza  della mediazione che essa realizza tra i diversi valori in gioco.

Il punto su cui intervengo è quello controverso tra stepchild adoption e la maternità surrogata  o utero in affitto. Molte  e molti  di quelli  che hanno sollevato obiezioni o richiesto chiarimenti non lo hanno fatto strumentalmente per attaccare la legge ma per avere chiare le scelte che il legislatore  compie. Per poterle  condividere e sostenere difronte all’opinione pubblica. 


Mi sia consentito di dire che troppe volte le risposte che ho ascoltato e letto mi sono parse   elusive della preoccupazione sollevata. Si è detto e scritto che non c’è nessun rapporto tra le due questioni, che bisogna tutelare il supremo interesse del minore, che non bisogna lasciare ai tribunali le scelte, che bisogna guardare alle nuove forme di genitorialità. Tutti punti condivisibili ma che non chiariscono fino in fondo. Sono convinta che per crescere un bambino, se è preferibile la presenza di un padre e di una madre, tuttavia bisogna prendere atto positivamente del diffondersi  di una genitorialità amorevole ed efficace da parte di coppie omossessuali. Pertanto, in una riforma della legge sulle adozioni, credo sia saggio regolamentare tale realtà.


L’adozione riguarda i minori in stato di abbandono: una condizione giuridica ed umana  chiara rispetto alla quale il tribunale dei minori ed i servizi sociali devono valutare la capacità della coppia di crescere  ed educare il bambino in modo armonico. In questo caso il valore in gioco è la capacità di amore e di cura della coppia.  Nel caso della stepchild adoption  si tratta di un figlio naturale di uno dei due partner della coppia omosessuale. Dunque i valori in gioco sono non soltanto la capacità di crescere il figlio e di amarlo ma la generazione del figlio.  Se nelle coppie lesbiche è chiaro chi è la madre(una delle due componenti) nella coppia gay è lecito e doveroso porre la domanda: dov’è la madre? Ha rinunciato al figlio che  è stato affidato al padre nel superiore interesse del minore? La madre è deceduta? O ci si è rivolti ad altre madri? 


C’è differenza tra usare l’espressione procreazione  e quella di generazione del figlio naturale. Scrivere in modo chiaro  generazione del figlio naturale   credo sia essenziale per dimostrare che non c’è legame tra lo stepchild e l’utero in affitto. Credo  inoltre sia utile ribadire in questa legge come in tutte quelle che attengono all’istituto della filiazione ,il divieto della maternità surrogata. Perché  se è vero che tale divieto è contenuto nella legge 40 va detto che tale legge è stata così pesantemente destrutturata dalle sentenze della Corte Costituzionale da non avere l’autorevolezza e la forza di far vivere quel divieto sul piano culturale   e  simbolico  oltrechè   su quello concreto. 


L ’impatto della maternità surrogata sull’istituto della filiazione è talmente sconvolgente  che il suo divieto va considerato un principio fondamentale  da applicare  in modo espansivo all’interno  del nostro ordinamento ogni qual volta si intervenga sulla filiazione riguardante sia le coppie eterosessuali che omosessuali. Questa scelta normativa  corrisponde ad una scelta valoriale molto netta: no, sempre e comunque, alla maternità surrogata.


E’ stato un passaggio epocale la elaborazione della maternità come relazione madre e figlio che ha il suo inizio nel grembo materno, grembo fisico e psichico. Quella relazione forma la personalità del figlio, è ciò che gli dà la vita non solo perché lo fa nascere ma lo nutre di un nutrimento fondamentale per la sua crescita che è la relazione d’amore. Riconoscere la madre, riconoscere la maternità come relazione umana primaria e di primaria importanza significa riconoscere un bene essenziale per il figlio  e non solo ribadire l’autorevolezza della madre e la sua centralità nel processo generativo e di filiazione. La maternità surrogata cancella tutto questo, riduce il grembo materno a contenitore fisico che toglie autorevolezza alla madre  arrecando un danno al figlio. 


Ancora più grave se si considera che nella grande prevalenza delle situazioni essa è una forma di sfruttamento della povertà femminile in tanta parte del mondo. Questo dovrebbe indignare la nostra coscienza, portarci a reagire, a mobilitarci contro una pratica che colpisce donne deboli se è vero che il mondo è in casa nostra e che il valore della dignità umana e della uguaglianza non conosce confini. Questa forma di sfruttamento è talmente blasfema ed indicibile da travolgere la libertà femminile  e da non consentirci di fare dei distinguo, in nome della libertà,  tra donne che scelgono e donne che subiscono. Il danno di quelle che subiscono tale pratica come sfruttamento ci coinvolge tutte, incatena la nostra libertà. La consapevolezza del  danno  arrecato a tutta l’umanità delle donne deve darci il coraggio di reagire,  in nome del bene comune e della  responsabilità verso se stesse e verso le altre, deve darci la forza e la determinazione di batterci  perché quel brutale sfruttamento abbia fine cancellando  la pratica che lo origina.   


Tante donne in Europa si stanno mobilitando. Cosa aspettiamo noi donne italiane a prendere parte a questa mobilitazione con il cuore indignato e con la mente preoccupata non solo per la sorte di tante sorelle ma di un bagaglio culturale, di principi, tra cui il valore della differenza sessuale, il valore delle relazioni umane a partire da quella che lega madre e figlio nel grembo materno.


Avere un figlio non è un diritto ma una responsabilità .E’ la realizzazione di un desiderio profondo che ha come finalità la nascita e la crescita di un altro da sé. La bellezza di mettere al mondo un figlio è che si mette  al mondo un’altra persona  ,un altro da sé,  rispetto al quale la felicità più grande  è la dedizione ,la cura per realizzare il suo bene. Perché non dovremmo  dire queste cose ora? Perché non dirle noi che vogliamo combattere le discriminazioni verso le persone omosessuali? Perché  non dirle noi e lasciare che altri strumentalizzino un tema così  grande?  Quando  è in gioco il valore della dignità umana e dell’eguaglianza di rispetto non è lecito affermare “questo non è il momento…”tanto più se  siamo consapevoli di aver perso del tempo prezioso per fare la nostra parte.


Livia Turco

Da l’Unità del 10 gennaio 2016