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Le nuove generazioni del Pd

15 Settembre, 2012 (09:48) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

di Livia Turco, da L’Unità del 15 settembre 2012

I giovani dirigenti del PD chiedono alla generazione più vecchia e autorevole di farsi da parte, di rinunciare a candidature e cariche di Governo. È normale che sia così, ciò che conta sono le argomentazioni e lo stile con cui si sostiene tale  tesi.
Ho avuto la fortuna di vivere, in ogni passaggio, la mia lunga militanza politica e di tanti anni in Parlamento (che lascerò) come grande passione. Sono stata una figlia privilegiata, scelta, tanto da trovarmi a trent’anni illustre sconosciuta (ma con una  gavetta tosta e dopo avere superato esami severi nella mia Torino) nella mitica segreteria nazionale del PCI. Ho potuto beneficiare della fiducia di madri e padri autorevoli, come Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Alessandro Natta e so cosa vuol dire avere dei padri e delle madri che non smetteresti mai di ascoltare e che ti dicono “vai è il tuo tempo”.

Conservo dentro di me la forza che mi sprigionava lo sguardo complice di Nilde e di Giglia quando intrapresi le battaglie nel PCI come la Carta delle Donne, I Tempi delle Donne, la Rappresentanza di Genere, per sentire ora la bellezza di voler trasmettere analoga forza alle più giovani. È ciò che cercai di dire nel mio intervento nella prima Conferenza Nazionale delle Donne del PD quando parlai di passaggio di testimone e dell’importanza di costruire finalmente nella scena pubblica una genealogia femminile che unisca le madri e le figlie. È possibile costruire questa solidarietà tra generazioni nel PD? Non credo che il problema sia stanare quelli che sono inchiodati al potere o combattere presunti patti di sindacato. La questione è il senso, il progetto con cui una generazione si candida a governare, il compito e la funzione che vuole svolgere nella società italiana.

La scuola da cui provengo, ci insegnò che si conta nel partito se si conta nella società. Credo che questo insegnamento resti attuale. Per la nostra generazione, quella degli anni ’70 la FGCI di D’Alema e Veltroni (che vedeva sull’altro versante a condurre la stessa battaglia, Rosy Bindi, Marco Follini ed altri) che si trovò a combattere tra la crisi della democrazia e la violenza terroristica, il compito fu rifiutare ogni forma di violenza, combattere in modo limpido l’idea di una violenza legittima e rivoluzionaria ed al contempo impegnarsi per un cambiamento radicale della democrazia che ne ampliasse la partecipazione, la rappresentatività e la capacità di decisione. Aver vinto il terrorismo ed essere riusciti a costruire una democrazia dell’alternanza attraverso l’esperienza dei governi dell’Ulivo e della prima volta della sinistra al governo del Paese, in tempi di continua emergenza e di crisi profonda della democrazia, credo resti il merito fondamentale di quella generazione, di chi l’ha diretta, e della classe dirigente che lì si è formata.

Così mi chiedo, con profondo sconcerto, come si può definire l’esperienza dei governi dell’Ulivo, subalterna al neo liberismo? Quei governi non solo risanarono i conti pubblici e ci portarono nell’euro, non solo seppero costruire una lungimirante politica estera ma si contraddistinsero per una saldatura tra rigore e giustizia sociale.
Costruire una politica economica e sociale che aveva nella redistribuzione, nell’equità e nella giustizia sociale un tratto molto forte. Che si tradusse in provvedimenti anche emblematici come la lotta alla povertà (l’unico strumento nella storia repubblicana era il reddito minimo di inserimento che risale al 1997) le politiche per l’infanzia (l’unico stanziamento di risorse rilevante nella storia della Repubblica è la legge 285 decisa nella finanziaria che ci portò nell’euro) e forti investimenti nella sanità pubblica, nella scuola pubblica e nelle politiche sociali, nelle politiche culturali.
Insieme alla lotta all’evasione fiscale e alle liberalizzazioni. Per essere precisa voglio ricordare anche il “Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibile” votato nel 2007 da 5 milioni di lavoratori che prevedeva tra l’altro la 14° mensilità per le pensioni fino ai 700 € e il blocco dell’indicizzazione di quelle più alte e misure contro la precarietà a favore dei giovani e delle donne.  Ricordo ancora l’ultima finanziaria del governo Prodi, 2007, approvata senza voto di fiducia che prevedeva un intervento per gli incapienti, la cancellazione dell’ICI sulla prima casa per i ceti più popolari,  il fondo per la non autosufficienza e gli asili nido e ben 8 miliardi in più per la sanità pubblica. Come sarebbe stata diversa la storia politica ma anche economica e sociale del nostro Paese se fosse proseguito il governo Prodi, proprio dopo l’approvazione di una legge finanziaria contenente politiche così significative per la redistribuzione e lo sviluppo. Si sarebbe potuta fare quella riforma del welfare che giustamente viene auspicata. Per non parlare di quel tema rilevante su cui si vincono e si perdono le elezioni, come il governo dell’immigrazione.
Chiedo: la legge 40 del 1996, quella che prevedeva anche il voto amministrativo agli immigrati, fu subalterna al neo liberismo? O non fu piuttosto profondamente riformista e lasciata sola nella società,  priva di quella battaglia ideale e culturale che solo un soggetto politico riformista poteva compiere. Proprio il tema dell’immigrazione mi porta a focalizzare quello che fu il vero limite dell’esperienza dei governi dell’Ulivo. Il loro deficit non fu nelle politiche di governo ma nella soggettività politica dell’Ulivo e della coalizione che lo sosteneva. Il limite fu “il riformismo dall’alto, il riformismo senza popolo”. Il limite fu il soggetto politico riformatore.

Per questo è stato importante scegliere il PD proprio il PD questo nostro bel partito come dice Pierluigi Bersani è l’eredità più preziosa che la nostra generazione consegna ai giovani. A mio modo di vedere il compito (arduo) dei più giovani è quello di ricostruire le fondamenta civiche e morali del nostro Paese, e combattere le diseguaglianze e le povertà, di ritessere un sentimento di fiducia questo richiede buone e nuove politiche, ma non solo. Richiede un nuovo partito popolare. Perché povertà e diseguaglianze si sconfiggono con il calore delle relazioni umane, con la capacità di prendere in carico chi ti sta accanto, di guardarlo negli occhi e dirgli “io ci sono, io capisco ciò che stai vivendo, tu devi essere protagonista”. Compito dei più giovani è fare i ministri, ma anche governare con la forza di un partito popolare che faccia incontrare l’azione di governo con la vita delle persone e torni a renderli davvero protagonisti.

Livia Turco

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