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Immigrazione. Basta con l’emergenza. Serve nuovo approccio

7 Settembre, 2015 (17:12) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

La natura e le cause che provocano l’esodo dei profughi chiede che si abbandoni la parola “emergenza” e si guardi al fenomeno immigrazione con una visione nuova e con un progetto. D’altra parte questo è stato l’impegno della Commissione Europea che con la sua Agenda sull’immigrazione,  fortemente sostenuta dall’Italia, propone una nuova visione del problema. Intervenire sulle cause dei conflitti, promuovere   un  forte e continuativo programma di cooperazione con  i paesi dell’Africa, rendendoli  protagonisti attivi del governo dell’immigrazione.  Questo è peraltro  il significato e l’esito concreto dei corridoi umanitari per selezionare in loco le domande d’asilo e attivare i rimpatri  assistiti. 


Distruggere i mercanti di morte e fermare il traffico di esseri umani. 

Particolarmente rilevante è la riforma dei Trattati di Dublino e la proposta del diritto d’asilo Europeo. Tale proposta, nella sua concretezza e gestita nell’emergenza,  ha  un risvolto importante sul piano dell’identità e del profilo ideale dell’Europa.  Contribuisce a costruire l’Europa della solidarietà  e dell’unità nella diversità. 

Per governare le tragedie conta la determinazione politica e contano  gli atti simbolici .Essi  possono cambiare il corso degli eventi. Come ha saputo fare Angela Merkel. Come seppero fare Ministri e Ministre dei Governi dell‘Ulivo quando i Balcani erano in fiamme.


Difronte al risorgere dei confini e dei nazionalismi dobbiamo porci l’interrogativo  di quali sono le ragioni per cui è così’ difficile costruire una politica europea dell’immigrazione. Ravviso due questioni che attengono alla stori del vecchio continente.

L’immigrazione ha sempre fatto parte della storia dei singoli paesi europei ma in modo molto peculiare, fortemente intrecciato alla peculiare storia nazionale. 


Queste peculiarità nazionali, questo intreccio nazione- immigrazione è alla base della difficoltà a pensare una convenienza comune ed una storia comune, a forme comuni di convivenza tra nativi e migranti. E, dunque a politiche comuni.


L’altra questione, sicuramente complessa, è che i diversi paesi Europei,  pur avendo  sperimentato  modelli diversi di integrazione, di cui almeno  tre hanno fatto scuola: l’assimilazionismo francese, il  neo comunitarismo inglese, il  multiculturalismo olandese, tutti e tre non hanno mantenuto le promesse . Non c’è stata sostanziale  integrazione sociale e culturale , soprattutto tra i giovani. Il riconoscimento delle differenze  si è tradotto quasi sempre nella  semplice” tolleranza”  delle differenze   che ha comportato una loro  sostanziale  ghettizzazione. Stare gli uni accanto agli altri senza fare la fatica del conoscersi e riconoscersi; senza cercare obiettivi comuni e condivisi: questo è stato il limite di tutti i modelli di integrazione sperimentati in Europa.   Con una parziale eccezione della Germania, della Svezia e dell’Italia. 


Se la parola d’ordine delle politiche europee sull’integrazione è stata “interazione” come processo bidirezionale che deve coinvolgere e cambiare entrambi i soggetti; dialogo con l’altro ed accoglimento della peculiarità della sua cultura,  fuori da ogni relativismo etico, nell’ambito dei nostri valori costituzionali ,nei fatti questo  è avvenuto molto poco.

Come mai? Come mai  in ciascun paese europeo è stato così  poco praticato ciò che con toni ed in modi diversi  da tutti sostenuto: riconoscere l’altro nella sua identità e cultura?


Perché nell’immaginario collettivo, nel senso comune, nella cultura diffusa, di noi europei - nonostante gli immigrati soprattutto nei paesi di più antica immigrazione siano ormai una popolazione integrata, che accetta regole e valori del paese ospitante - essi restano per noi forza-lavoro, lavoratori ospiti e non cittadini.

Questo in ragione del fatto che da parte delle classi dirigenti di ciascun paese europeo di fatto è prevalso un approccio economico corporativo al tema immigrazione.


I migranti, le loro vite, le loro culture  non sono diventati ingredienti delle identità nazionali e della identità europea. Nel corso di tanti anni, tranne rare eccezioni, non sono stati chiamati a costruire la comunità, a concorrere a definire le scelte che la riguardano. Non sono stati incentivati a diventare attori della polis, ad occupare e praticare  la scena pubblica.

Sono rimasti confinati nella dimensione economica e privata.


Mi spiego tutto ciò con il permanere, soprattutto in noi italiani, di una concezione della cittadinanza e della identità italiana, come un fatto omogeneo, connesso al legame di sangue. Nonostante il cosmopolitismo della nostra cultura e gli italiani sparsi nel mondo  il sentimento dell’identità nazionale non  è diventato capace di praticare la pluralità.

Anche per questo facciamo fatica a sentirci europei.


Ecco, io penso che la difficoltà a costruire una politica europea dell’immigrazione risieda in questa concezione omogenea e nazionalista della cittadinanza e dell’identità nazionale che in modo diverso coinvolge ciascun paese europeo.



Cosa è una nazione? Come costruire una dimensione della cittadinanza che non sia chiusa nei confini della Nazione? Anche perché i Trattati internazionali adottati dall’Europa  affermano che non sono i confini ma è  la dignità umana la fonte dei diritti e dei doveri. Dunque, un capitolo fondamentale dell’Agenda Europea  che si sta discutendo deve essere quella delle politiche di convivenza volte a costruire l’Europa plurale, l’unità nella diversità. Ciò significa far diventare pratica quotidiana la parola “interazione” e, soprattutto, farla vivere nella dimensione pubblica, civile e politica. La partecipazione attiva dei migranti alla vita della comunità, la condivisione di obiettivi comuni per migliorare insieme il nostro paese e l’Europa: questa è la strada da percorrere.


Migranti attivi, che costruiscono relazioni positive con i nativi nella vita sociale ed in quella politica (non solo nelle nostre famiglie) cambiano la percezione dell’immigrazione, alimentano sentimenti comuni di appartenenza e  dunque creano un senso civico condiviso ed una democrazia più forte.

Come dimostra la recente  reazione degli italiani difronte ai nuovi venuti che in modo diligente hanno svolto o si sono dichiarati disponibili a svolgere lavori utili alla comunità.


Livia Turco

Da l’Unità del 6 settembre 2015

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