Il Blog di Livia Turco

www.liviaturco.it



Categoria: Articoli pubblicati

Per un tempo di vita che duri tutta la vita

29 Maggio, 2020 (14:08) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Il virus sconosciuto che si è abbattuto sul nostro pianeta e sulle nostre vite ha, tra le altre cose, portato uno sconvolgimento nella scansione sociale e nell’uso del tempo e sicuramente ha inciso sul nostro tempo interiore. La reclusione ha significato per molti di noi, abituati a vite freneticamente attive, scoprire il tempo lento e credo che per molti sia stata la possibilità di recuperare tanti momenti di vita trascurati come appunto, il rapporto con la casa, con gli affetti, con lo studio, con la memoria. Un tempo lento che ci ha scaraventato in faccia con durezza la concretezza delle diseguaglianze sociali.

Ben diverso un tempo lento vissuto in una casa comoda ed accogliente con il lavoro tutelato, dal tempo lento di chi vive in famiglie numerose in case piccole, con persone portatrici di fragilità e con l’assillo della perdita del lavoro e del reddito che non c’è. Abbiamo visto squadernarsi di fronte a noi come grandi problemi umani e sociali la vita dei nostri bambini, la vita dei nostri vecchi.

Ci siamo resi conto di quanto poco sappiamo dei problemi e delle aspettative di queste diverse fasi della vita perché in questi anni la rappresentazione sociale del tempo è stata divorata dal tempo della produttività, della fretta, della velocità connessa alla fase centrale della vita, come se questa fosse l’unica della nostra vita. Abbiamo dimenticato che la nostra vita è un “ciclo di vita” scandito da fasi, stagioni, cui corrispondono bisogni individuali e sociali peculiari. Paradossale per una società composta da una grande quantità di popolazione anziana e dove avere un figlio è diventato un lusso.

Abbiamo assistito ad un cambiamento profondo del lavoro che, con il lavoro agile ed il telelavoro, ha visto spostare il suo luogo di produzione nella casa, nella famiglia vale a dire nel luogo storicamente antitetico al mercato ed alla dimensione pubblica. Abbiamo visto quanto sia cruciale e centrale il tempo della cura delle persone nei suoi diversi aspetti: cura delle persone nella malattia, cura delle ferite sociali, cura dei contesti e dei luoghi sociali.

Nulla sarà più come prima, ne sono profondamente convinta. A partire dalla necessità di dare un nuovo senso ai tempi della nostra vita e costruire una scansione sociale che consenta di realizzare l’obiettivo di un tempo di vita che duri per tutta la vita. C’è stata una stagione, gli anni novanta, in cui questa consapevolezza del valore del tempo - scaturita dalla nuova soggettività delle donne, che volevano vivere con pienezza il tempo della maternità senza sacrificarlo sull’altare del lavoro o senza dover rinunciare alla pienezza del tempo di lavoro, con la pretesa di avere persino un tempo per stesse - si tradusse in dibattito pubblico, in azione politica efficace.

Libri come “Time To Care” di Laura Balbo, “Tempo da vendere e tempo da usare” di Carla Ravaioli, suscitarono un ampio dibattito. Scesero in campo sociologhe, urbaniste, femministe ,sindacati, lavoratrici, imprenditrici. Una proposta di legge d’iniziativa popolare “Le donne cambiano i tempi,” proposta dalle donne comuniste, raccolse in breve tempo 300.000 firme. Comparvero i piani regolatori dei tempi delle città che hanno avuto come protagoniste sindache ed assessore come Alfonsina Rinaldi a Modena e Mariella Gramaglia a Roma.

Il Piano Regolatore dei tempi delle città e l’Ufficio Tempo ed orari insieme alla inedita esperienza di mutualità come Le Banche del tempo sono diventati gli articoli 24 e 27 della legge 53/2000 e sono tuttora norme vigenti. L’esperienza italiana fece scuola in Europa, Barcellona, Parigi e tante altre città hanno costruito e continuano a costruire nuove politiche dei tempi di vita. Il contesto era quello del tempo scandito dalla organizzazione fordista del lavoro e l’esigenza primaria era conciliare il tempo di lavoro con gli altri tempi della vita, dare visibilità e riconoscimento sociale al tempo della cura, consentire alle donne di vivere con pienezza il tempo della maternità, riconoscere le peculiarità delle diverse stagioni della vita ed evitare che ciascuna coincidesse solo con una funzione sociale ma che tutte fossero attraversate dai tempi diversi della cura e del tempo per se’, della convivialità e del dono.

Successivamente questo dibattito si è spento, le conquiste legislative dimenticate. I processi di globalizzazione hanno portato uno sconvolgente cambiamento nella scansione sociale del tempo ed anche del suo valore. Siamo diventate società permanentemente attive. Questo scardina l’organizzazione dei tempi sociali e rende difficile connettere i tempi di lavoro con le gli orari dei servizi, dei negozi e delle scuole.

Il tempo di lavoro si è dilatato a dismisura, è diventato tiranno di tutti gli altri tempi di vita. Ha occupato tutta la giornata, la notte, le settimane, l’anno. Per di più è diventato una risorsa scarsa per cui pur di averlo le persone sono state disponibili ad accettare questa tirannia del tempo di lavoro. Non per tutti. C’è chi può scegliersi il tempo di lavoro, vivere un tempo di lavoro gratificante, scegliere di collocarlo in momenti diversi della vita. Insomma la fine della organizzazione fordista del lavoro, la destrutturazione del tempo di lavoro, la sua delocalizzazione ha accentato le diseguaglianze sociali.

Anche perché questo lavoro si è dislocato in luoghi lontani, è scomparso dai territori e dai luoghi in cui era radicato, ha smembrato identità collettive. Con le nuove tecnologie misuriamo le possibilità ma anche i vincoli offerti dall’essere sempre “connessi”: accanto al venire meno dei confini tra spazi/tempi di vita, non va sottovalutata la possibilità di risparmiare tempo (ad esempio di viaggio) oltre che di poter mantenere relazioni “ faccia a faccia” a distanza anche a livello quotidiano.

A fronte di questi cambiamenti, aumentano sia le esigenze di mantenere confini e distinzioni, sia , all’opposto di ridurli, attraversarli, ridefinirli. Anche se i tempi sociali continuano ad essere in larga misura standardizzati, aumenta anche il desiderio, ed in diversi casi anche la capacità di riorganizzazioni personalizzate di temi/spazi di vita. Stiamo diventando una società più” mobile”, sapersi muovere, spostarsi da una città all’altra e da un paese all’altro offre maggiori opportunità di lavoro e di crescita professionale ma comporta anche maggiori fatiche.

La mobilità è un fattore di crescita, economica e culturale. Bisogna evitare che esso diventi un ulteriore fattore di diseguaglianza sociale tra chi ha la possibilità egli strumenti culturali per muoversi e chi no. Bisogna promuovere il diritto alla mobilità delle persone. bisogna promuovere il diritto dovere alla formazione continua già prevista nella legge 53/2000 con il congedo per formazione ma che ora deve diventare parte integrante del tempo di lavoro, parte della dimensione lavorativa.

Questo ampliamento del tempo di lavoro non è stato accompagnato da un welfare che offrisse opportunità di sevizi, di beni comuni per accompagnare e sostenere il tempo di lavoro. Anzi questi beni comuni si sono molto impoveriti, rendendo difficili le connessioni tra il tempo di lavoro ed i tempi sociali. Le persone ed in particolare le donne sono state costrette a fare acrobazie per conciliare i normali compiti della vita con la perdita della possibilità di vivere tempi importati come il tempo prezioso della maternità, lo studio, il tempo per se’. E’ cresciuta la quantità del lavoro di cura richiesto dalle persone, dalle famiglie, dalla società.

Per la sua importanza nella vita delle persone, come fattore di inclusione sociale attraverso le tante esperienze di cittadinanza attiva. Ma esso è rimasto, nella rappresentazione pubblica e nel suo valore economico e sociale un tempo minore, poco remunerato, e, soprattutto è rimasto un tempo delle donne. Nell’ultimo decennio si è costruito una catena della cura che ha unito madri, figlie, nonne, bisnonne, supportate dalle donne migranti. Un anello forte della solidarietà femminile che ha consentito di non essere travolti dalla crisi finanziaria del 2008 e dai tagli pesanti apportati al welfare pubblico.

La cura delle persone deve essere un tempo pubblico, ingrediente della crescita economica, del benessere sociale. Ma anche ingrediente della cittadinanza e della democrazia. Due sono le scelte che rendono concreto anche sul piano simbolico questo valore della cura.

1) Riconoscere in modo adeguato il lavoro di cura svolto nelle famiglie dalle lavoratrici della cura, dotarlo di formazione, prevedere la loro iscrizione in appositi Albi presso gli Uffici comunali cui possono riferirsi le persone e le famiglie, dotare questo lavoro di uno status simile agli altri lavori superando ad esempio la norma che non prevede per queste lavoratrici l’assistenza sanitaria pubblica in caso di malattia mentre oggi il periodo di malattia, non superiore ai 15 giorni, è a carico delle famiglie.

2) Il servizio civile universale, cioè obbligatorio nella fase giovanile della vita. La cura delle persone diventa così sul piano simbolico e concreto un tempo pubblico, della cittadinanza civica. ll tempo del coronavirus con la pratica obbligata del distanziamento fisico comporta una diversa organizzazione del tempo e degli spazi. Anziché procedere in ordine sparo credo sia importante assumere questo cambiamento e pensarlo, gestirlo dentro un grande progetto ed una idea di società che rimetta al centro il valore dei tempi di vita e la costruzione di una diversa organizzazione dei tempi sociali che consenta a ciascuno, in ogni stagione della vita, pur rispettando le peculiarità e gli obblighi sociali di ciascuna, di vivere la MESCOLANZA dei tempi di vita.

Ci vuole un idea di crescita e sviluppo che metta al centro come grande fattore di sviluppo i beni comuni: salute ambiente, scuola, sostegno alle responsabilità famigliari. Bisogna dare dignità a tutti il lavori ed un welfare che riconosca i diritti di tutti i lavori superando la distinzione che si è aggravata tra lavori garantiti e lavori precari. Incentivare e regolamentare tutte le forme di lavoro flessibile che consenta concretamente la mescolanza dei tempi.

Bisogna costruire un welfare che sostituisca la babele degli attuali trasferimenti monetari in un welfare di comunità che a partire dalla promozione della salute come bene comune e dalla comunità che genera salute realizzi la connessione tra interventi sociali, sanitari, formativi, lavorativi attraverso la partecipazione attiva delle persone e la valorizzazione della loro competenze. Un Welfare che sia radicato nella comunità competente, che la animi e la sostenga e che costruisca finalmente il pilastro delle politiche sociali attraverso la rete integrata di interventi e servizi sociali.

Per una presa in carico attiva delle persone che tiri fuori di ciascuna, a partire dalle persone più fragili, le abilità e le competenze. Bisogna rilanciare i Piani Regolatori dei Tempi delle città per costruire citta aperte che offrano opportunità di vita sociale, economica, di formazione, di cultura lungo tutto l’arco della giornata e della settimana per consentire alle persone di vivere la mescolanza dei diversi tempi di vita. Una società permanentemente attiva ha bisogno di una” città aperta” che offra un ampia gamma di opportunità connesse ai vari tempi della vita. Tempi di vita significano spazi e luoghi.

Il tempo lento, della convivialità e del dono, il tempo della cultura, fanno riscoprire luoghi abbandonati o trascurati: gli orti, i cortili, le piazze, i borghi, le biblioteche, le chiese ecc.. ed inventare spazi nuovi. Bisogna consentire a ciascuna persona e ciascuna famiglia di costruire un “cocktail personalizzato” dei tempi di lavoro e di vita. Bisogna promuovere il mutuo aiuto, i legami sociali, lo scambio del tempo, come suggerisce la bella esperienza de le “Banche del tempo”.

Vivere la mescolanza dei diversi tempi di vita, lavoro, cura, formazione, cultura, dono, convivialità, impegno sociale, credo sia la cifra del cambiamento che dobbiamo realizzare. Questa mescolanza, accessibile a tutti e tutte, è la possibilità di una vita piena, di una società umana. E’ il modo concreto per attuare l’idea di un Tempo della vita che duri tutta la vita.

Livia Turco

da Huffington Post 

Costruire un nuovo umanesimo

1 Maggio, 2020 (12:18) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Ciò che di sconvolgente è avvenuto con la diffusione del Covid-19 cambia lo sguardo sul mondo. Non si può dire “torneremo come prima” perché questo significa non capire quanto è successo. Un virus oscuro che tiene in scacco l’umanità, che lacera la nostra economia, che getta le persone nella miseria, che vede a New York scavare le fosse per seppellire le persone povere che non avevano i soldi per curarsi e che sono morti,che ci guarda le file dei camion della Difesa italiana in un lungo corteo che trasportavano le bare in cerca di luoghi tra le varie città in cui seppellirli. Migliaia di persone anziane morte sole, senza il sorriso e la carezza dei propri cari.

Tutto quanto è successo ci fa vedere il mondo malato che abbiamo costruito noi. “Ci credevamo sani in un mondo malato” ha scritto Papa Francesco. La malattia scaturisce da una forza motrice potente che ha avuto i suoi meriti ma che nella sua unilateralità ha prodotto gravi danni: il motore della onnipotenza dell’uomo su ogni parte del mondo, del progresso come continua crescita ed arricchimento. Che si è tradotta in un esercizio della supremazia dell’uomo considerata normale e scontata che ha ferito le parti del mondo che non si lasciano dominare dalla supremazia dell’uomo come l’ambiente in cui viviamo, gli animali con cui conviviamo. Il mito della onnipotenza che si è accompagnato con quello dell’individualismo. Della ipertrofia dell’io.

La diffusione del Covid-19 invisibile ed impalpabile eppure mortale ci ha fatto sentire che non siamo onnipotenti ma fragili. La scoperta della fragilità è l’esperienza che stiamo facendo. Che non dobbiamo vivere solo come debolezza o come condizione passeggera ma come la restituzione della nostra reale condizione di esseri umani, la reale condizione della nostra umanità. Dobbiamo elaborare questa condizione di fragilità per capire cosa significhi e far scaturire da essa nuovi pensieri, nuovi paradigmi con cui guardare il mondo.

Elaborare e costruire un nuovo umanesimo che ci consenta di curare il mondo malato, di pensare e realizzare un mondo nuovo. La fragilità ci fa sentire più forte il legame che ci unisce l’uno all’altro, l’essere tutti sulla stessa barca. Ma questa consapevolezza e percezione non si traduce automaticamente in un sentimento di solidarietà, in una visione solidale ed inclusiva della società. Bisogna elaborare un pensiero sulle interdipendenze, sulle interconnessioni che ci uniscono e far cogliere il vantaggio ed il senso dell’essere comunità. Trasformare l’interconnessione in solidarietà. Elaborare un’idea di società, le pratiche sociali e politiche che possono realizzarla. Questa è la sfida che abbiamo difronte.

La salute ci ha calato nel mondo globale ed abbiamo capito che la salute è un bene primario e globale. La salute è il bene primario perché coincide con la vita umana, deve avvalersi di politiche globali, di istituzioni globali tra loro interconnesse. La salute diritto fondamentale e bene comune che si costruisce nella comunità deve essere il nuovo paradigma ed il punto di partenza per far sentire concreto e prossimo il legame comunitario e fare crescere il sentimento del mondo globale. Per comprendere e sentire il valore delle istituzioni sovranazionali bisogna che esse siano radicate nei nostri bisogni quotidiani e beni comuni. Quanto è stata fondamentale, ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nella gestione di questa pandemia, tanto che già nella Conferenza di Alma Ata del 1978 aveva indicato l’obiettivo della salute globale, costruita nella comunità come benessere della persona. Ci stiamo rendendo conto difronte ai drammi della disoccupazione, della povertà, che, o abbiamo una Unione Europea, o nessun paese potrà vincere da solo questa dura battaglia. A partire dalla salute e dunque dalla vita umana possiamo imparare a sentirci cittadini europei a capire il valore prossimo, legato alla nostra vita di una Europa unita.

Tempi di vita come grande questione sociale

In questi giorni abbiamo vissuto la strage dei nostri vecchi. Le persone cui dobbiamo la nostra democrazia, lo sviluppo, il benessere, i nostri affetti più cari. Guai se questa strage fosse accompagnata da un sentimento di ineluttabilità. In un tacito relativismo etico, in una nascosta cultura dello scarto, “comunque erano vecchi”. La tragedia che abbiamo vissuto e viviamo deve farci amare ancora di più i nostri vecchi e sollecitarci ad aprire un dibattito pubblico sul valore della vita in ogni sua stagione. Sul significato della vecchiaia, sul come viverla con dignità, tenerezza, sostegno e solidarietà. Affrontare il paradosso per cui siamo un paese che invecchia e non ha mai promosso un dibattito pubblico sulla vecchiaia e contemporaneamente lascia i giovani in una condizione di precarietà.

Ed allora bisogna parlare del ciclo della vita scandito nelle sue diverse stagioni. Esse corrispondono a funzioni ed obblighi sociali, certo ineludibili, ma sono, ciascuna, stagioni della vita con eguale valore che dobbiamo imparare a vivere ciascuna con la propria peculiarità e con la mescolanza dei diversi tempi di vita: studio, lavoro, formazione, tempo della cura, tempo per sé. Questa mescolanza dei tempi in ogni fase della vita è il modo concreto per dare valore alla vita umana e realizzare la parola d’ordine ”per una vita che duri tutta la vita”.

Bisogna costruire politiche del lavoro, uno sviluppo economico, un sistema di welfare, politiche urbanistiche che abbiano questa ambizione. Il tempo, i tempi della vita, la loro scansione sociale, la loro fruibilità e mescolanza è questione cruciale per costruire una società umana. Tempi di vita e di lavoro che già sono cambiati in questa drammatica crisi. Abbiamo assistito ad un mutamento profondo del lavoro. Lavoro in casa, telelavoro, lavoro agile. Che con una rapidità strepitosa, ha ridefinito le connessioni spazio -tempo; tempo per il mercato e tempo per la cura perché quel lavoro si svolge nel luogo per eccellenza che è la casa.

Un cambiamento per cui le donne si battono da decenni e che si è materializzato in nuove forme dentro questa drammatica crisi nel giro di poche settimane. Abbiamo visto squadernarsi difronte a noi le tante forme di lavoro e le differenti forme di tutele. Il vecchio tema, lavori tutelati e lavori non tutelati non solo non si è risolta, si è anzi aggravata. Ed il tempo di lavoro per molti, in particolare giovani, si pone come “tiranno” degli altri tempi della vita, cosi scarso, così necessario che lo si accetta a qualunque condizione. L’uso del tempo è rivelatore delle diseguaglianze sociali e può fomentare diseguaglianze. La preparazione della ripartenza economica ha come riferimento il principio imposto dalla salute del “distanziamento” tra le persone a partire dai luoghi di lavoro ed in quelli pubblici.

Vediamo che questa esigenza incide sui tempi, sugli spazi, impone un tempo sociale più lento, un tempo di lavoro che si snoda lungo tutto l’arco della giornata, la dove non è possibile realizzare il lavoro agile a casa, richiede la possibilità di utilizzare i servizi quotidiani e sociali in un arco di tempo più ampio, si dice giustamente che bisogna evitare le ore di punta, con la conseguente congestione del traffico. Si discute di come fanno i genitori che tornano al lavoro a lasciare i propri figli a casa. Questo ripropone l’importanza di tempi e spazi per l’infanzia e l’adolescenza che siano di sostegno alle famiglie ed alla attività formativa delle scuole. Siamo in emergenza, urgono soluzioni urgenti ma questi non sono questioni emergenziali ma l’espressione di bisogni e problemi da cui partire per riprogettare la nostra società a partire dalle definizione dell’agenda politica.

Ci vuole un Piano Regolatore dei tempi nelle città per ampliare e connettere le opportunità di studio, di servizi sociali e sanitari, culturali con il tempo di lavoro. Una società permanentemente attiva ha bisogno di una società che offra un ampia gamma di opportunità, che sia aperta e solidale. Ha bisogno di riscoprire e di rivitalizzare i suoi luoghi e spazi. Solo così si possono realizzare le connessioni tra i tempi di lavoro ed i tempi di vita e dare la possibilità a ciascuna persona di vivere la mescolanza dei diversi tempi di vita. Bisogna costruire un welfare che riconosca dignità, diritti e tempi di vita a tutti i lavori. Bisogna riconoscere il lavoro di cura, la sua centralità economica, sociale, di costruzione della comunità. Tempo pubblico per eccellenza che deve essere riconosciuto, tutelato e valorizzato nelle diverse forme in cui il prendersi cura si manifesta: lavoro famigliare, cittadinanza attiva. Tempo e cura per l’infanzia, tempo e cura per gli anziani.

Un documento recente elaborato da studiose e donne impegnate nelle associazioni categoriali parla di una Democrazia della cura. Io penso sarebbe utile lavorare ad una Legge quadro sul lavoro di cura a partire da alcuni provvedimenti urgenti come il sostegno economico a chi oggi è colf e badanti, dalla emersione del lavoro in nero attraverso la regolarizzazione e la possibilità per le lavoratrici ed i lavoratori della cura quando si ammalano di vedere il tempo della malattia a carico dello Stato e non del datore di lavoro peraltro per soli 15 giorni a prescindere dalla gravità della malattia.

Costruire la comunità competente

Per trasformare le interconnessioni in solidarietà è fondamentale costruire la comunità competente.

Questa scelta deve orientare lo sviluppo economico e sociale, le politiche di welfare, il senso e le forme della democrazia.

La globalizzazione che abbiamo conosciuto ha impoverito i nostri territori del lavoro, delle identità culturali, della partecipazione democratica facendoli sentire luoghi estranei e creando spaesamento e solitudine. Si può ridare senso alle istituzioni europee, si possono fare sentire utili e vicine le istituzioni internazionali, si può far crescere un sentimento europeo se queste contribuiscono a rianimare i territori in riportando in quei luoghi il lavoro, le opportunità di vita, i fondamentali beni comuni , con istituzioni democratiche che valorizzano le identità culturali e favoriscono nella vita quotidiana l’incontro ed il legame tra le persone sollecitandoli nelle loro competenze ad essere protagonisti del dibattito pubblico e delle decisioni pubbliche.

Costruire il senso e la concretezza della comunità a partire dai mondi vitali è il modo per fare si che quel sentimento e consapevolezza “siamo tutti sulla stessa barca” faccia crescere il sentimento e la consapevolezza della positività e della bellezza di diventare cittadini del mondo.

La salute come diritto fondamentale e bene comune che costruisce la comunità.

Bisogna tornare ai fondamenti, alle indicazioni della Organizzazione Mondiale della Sanità che nella Carta di Ottawa del 1986 afferma che: “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si lavora, si studia, si gioca, si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capace di prendere decisioni, e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri, di raggiungere la salute. Fattori economici, politici, sociali, culturali, ambientali, comportamentali e biologici possono favorire la salute ma possono anche danneggiarla”.

Dunque bisogna promuovere “la salute in tutte le politiche” attraverso i programmi intersettoriali della salute. Tutti parlano di rilanciare la Medicina del territorio, ma cosa intendiamo con questa definizione? Anche qui torniamo ai fondamenti, alla Conferenza di Alma Ata del 1978 della OMS che definisce le cure primarie “il primo contatto degli individui, delle famiglie, la comunità con il sistema sanitario del paese, portando l’assistenza sanitaria quanto più vicino è possibile a dove la popolazione vive e lavora, costituendo il primo elemento di un processo continuo di assistenza”.

Bisogna investire su le Case della salute che vantano un lungo percorso sperimentale e legislativo (Patto per la Salute 2006) ma sono state realizzate sul territorio nazionale in modo difforme, a volte come semplice accorpamento di servizi territoriali. Esistono delle buone pratiche ispirate dalla idea guida della comunità competente, che hanno realizzato una integrazione tra servizi sanitari, sociali, educativi, con team multi-professionali ,la promozione della medicina d’iniziativa e l’attivazione della partecipazione competente dei cittadini. Sarebbe utile conoscerle e discuterle in un dibattito pubblico. C’è bisogno che il Ministero della Salute promuova una vasta e partecipata Conferenza nazionale sulla medicina territoriale per definirne il significato e gli indirizzi concreti e le riforme necessarie. La medicina del territorio si basa sulla integrazione socio sanitaria, prevista dalla legge 833/78 e riproposta dal Decreto legislativo 229/99. Ma per fare questo, come deciso da una legge di riforma 20 anni fa, la 328/2000 bisogna costruire il pilastro delle Politiche Sociali con il Fondo Sociale, il Piano sociale Nazionale ed i Livelli essenziali di Servizi e prestazioni.

Il pilastro delle politiche sociali

Credo che oggi ci sia un bisogno acuto di promuovere una lettura condivisa dei bisogni sociali del nostro paese a partire da una discussione che nei territori attivi la comunità competente. Abbiamo bisogno di comprendere e condividere i bisogni nuovi dei nostri bambini, dei nostri adolescenti per favorire la loro crescita, socializzazione, formazione e fornire gli interventi adeguati; abbiamo bisogno di aggiornare una lettura condivisa di cosa significhi oggi invecchiamento, di come promuovere l’invecchiamento attivo, di come prevenire, rallentare e prendere in carico la non autosufficienza; aggiornare i bisogni delle famiglie nell’esercizio della normale e quotidiana funzione di cura ed educativa.

Aggiornare la lettura delle fragilità. Per arrivare a definire, attraverso un percorso partecipato e condiviso un Piano Sociale nazionale ed i Livelli essenziali delle prestazioni e dei diritti sociali che garantisca una vera presa in carico delle persone a partire dalla infanzia, dalla vecchiaia, dalle fragilità e sia di sostegno alla normalità della vita delle famiglie. Superando la quantità disordinata di bonus e di fondi specifici che sono inefficaci e lasciano soli i Comuni ed obbligano il Terzo Settore ad affrontare i problemi sociali secondo la logica di progetti al minor costo, precari nel tempo che non garantiscono una vera presa in carico delle persone. La rete integrata dei servizi sociali è l’interfaccia necessario per costruire la salute della comunità. Può e deve svolgere una funzione di connessione tra i diversi beni comuni. Si potrebbe passare dall’attuale Piano Sociale di Zona al Progetto di Comunità coordinato dai Comuni con il compito di promuovere una co-progettazione degli interventi relativi ai diversi beni comuni, coinvolgendo le differenti professionalità, i soggetti del volontariato e del Terzo settore, le fondazioni bancarie, le imprese.

Il Piano Sociale ed i Livelli essenziali sociali devono essere promossi e coordinati dai Ministeri del Lavoro e Politiche Sociali, Ministero della Salute, della Famiglia e della Pubblica Istruzione.

La democrazia della cura

La comunità competente e l’interconnessione che produce solidarietà deve riconoscere il valore strategico del prendersi cura della persona come ingrediente della cittadinanza.

Bisogna riconoscere il ruolo economico, sociale, democratico del Terzo settore.

Ma bisogna che il prendersi cura diventi una responsabilità esercitata da ciascun cittadino e che questa dimensione del tempo sia riconosciuta come un tempo pubblico, un dovere cui ciascuno si senta chiamato per dare il suo contributo alla comunità.

Sono convinta che il Servizio Civile per i giovani sia una straordinaria scuola ed un modo concreto per riconoscere sul piano simbolico il ruolo pubblico del prendersi cura, sarebbe importante diventasse davvero universale ed anche obbligatorio. Si potrebbe pensare anche ad un servizio civile per gli anziani , per valorizzare le loro competenze, promuovere la loro attività e costruire la solidarietà tra le generazioni.

La Democrazia deliberativa

La democrazia deliberativa è quella che promuove in modo permanente un’Agorà per coinvolgere i cittadini nelle più importanti scelte della comunità. Promossa dall’Ente Locale, dal Comune potrebbe essere una pratica politica di partecipazione attiva dei cittadini alle scelte fondamentali del proprio territorio. Essere coinvolti come cittadini- italiani e nuovi italiani- nelle scelte che le istituzioni locali deliberano in merito alla comunità ed alla vita delle persone, essere coinvolti nella deliberazione delle scelte con percorsi di discussione, condivisione, consapevoli che il proprio punto di vista espresso in modo pubblico conta, incide, nella formazione delle decisioni, costituisce un collante prezioso, fa scattare nell’animo delle persone un sentimento di appartenenza, condivisione e di responsabilità, sollecita ciascuno ad esprimere la propria competenza, promuove concretamente la comunità competente.


Livia Turco

da: Immagina.it

Sì all’obbligatorietà del servizio civile

18 Aprile, 2020 (16:23) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Caro direttore, ripensare e rilanciare il Servizio Civile Universale è l’interessante proposta che un folto gruppo di personalità il 7 aprile scorso ha illustrato su questo giornale in dialogo con lei, trovando anche un riscontro positivo nelle parole del ministro competente e del presidente del Consiglio. La pandemia ha dimostrato la necessità di grandi competenze per il bene comune. Di qui la proposta di rilanciare e ripensare il Servizio Civile come una forza nazionale giovanile con la missione di aiutare le fasce deboli della popolazione a fianco della Protezione Civile e di altre organizzazioni. Una forza dotata di una adeguata formazione. E costruita pensando anche alla fragilità del pianeta. In futuro altre emergenze economiche, ambientali e sanitarie saranno inevitabili. Condivido il punto di fondo: la società che dobbiamo curare e reinventare ha bisogno di molte competenze che promuovano il bene comune.

Il dramma dei nostri vecchi che muoiono nelle case di riposo, le grandi lacune della medicina territoriale nonostante l’Organizzazione mondiale della Sanità l’abbia indicata e definita in modo ben preciso nella Conferenza di Alma Ata nel 1978, come ‘benessere della persona e della comunità’, dimostrano che ci vuole un cambio di paradigma e insieme alle risorse pubbliche sia necessario costruire una ‘comunità competente’ e attiva per promuovere quel fondamentale bene comune che è la salute.

Se questa ‘comunità competente’ è una componente fondamentale del welfare che dobbiamo ricostruire, cioè se la questione è la mobilitazione e la promozione delle competenze dei cittadini per la promozione dei beni comuni, allora bisogna essere consapevoli che non basta attribuire al meraviglioso volontariato, alla capacità di dedizione dei cittadini, alle organizzazioni del Terzo settore il compito di sollecitare in tale direzione. Bisogna mettere in discussione, scardinare, anche attraverso un dibattito pubblico, la scansione del tempo che caratterizza la nostra società e la considerazione pubblica riconosciuta ai vari lavori e alle forme di impegno sociale. Oggi abbiamo una scansione del tempo che considera la cura delle persone un tempo privato, il lavoro retribuito il tempo pubblico che fonda diritti e cittadinanza ed alimenta la nostra democrazia, il tempo della gratuità e del dono come tempo onorato e anche riconosciuto nella Costituzione nella sua funzione di sussidiarietà rispetto al pubblico e in talune leggi e politiche (La legge 328/2000 sulle politiche sociali con la pratica della co-progettazione e le recente riforma del Terzo Settore), ma confinato in un cono d’ombra affidato al buon cuore dei cittadini.

Se, dunque, il tema cruciale oggi è promuovere la ‘comunità competente’ per la realizzazione dei beni comuni, il tempo della cura delle persone, il prendersi cura delle persone deve essere riconosciuto anche come tempo pubblico, ingrediente della democrazia e motore della cittadinanza.

È compito della Repubblica, in osservanza all’articolo 2 della Costituzione, promuovere la rilevanza pubblica del tempo della cura. Sollecitare le persone a prendersi cura degli altri. Aiutare con politiche pubbliche chi aiuta. Viviamo in un mondo interconnesso e l’esperienza della pandemia ci ha fatto e ci fa vivere la consapevolezza del legame che ci unisce l’uno e l’una agli altri e alle altre sul piano globale.

Bisogna cogliere questa esperienza di vita e aiutare le persone a elaborare questa scoperta della interconnessione in modo positivo, come bisogno, attitudine, competenza a costruire comunità e legami sociali. Non è scontato che l’esperienza della interdipendenza che viviamo in questo dramma si traduca in attitudine e competenza a costruire legami sociali e a prendersi cura delle persone.

Ci vogliono esempi, buone pratiche, ci vuole il sollecito del volontariato e delle Ong. Ma ci vuole anche un esempio e un sollecito da parte delle istituzioni pubbliche. Per questo ritengo che questo sia il momento giusto per discutere di un rilancio e di una riforma del Servizio Civile Universale là dove per universale anche io – come lei, direttore – intendo obbligatorio. Chiedere ai giovani cittadini e cittadine di dedicare un tempo della loro vita alla cura delle persone. Un Servizio Civile Nazionale coprogettato e cogestito dallo Stato e dalle istituzioni pubbliche con le realtà del volontariato e del Terzo settore in un contesto europeo. Sottolineo: coprogettato e cogestito su un piano di parità. Avrebbe il vantaggio di formare i giovani alla promozione dei beni comuni, ad acquisire competenze ed a formarsi un abito mentale che saranno loro utili per tutta la vita. Favorirebbe la solidarietà tra le generazioni che è un bene prezioso. Aiuterebbe finalmente a superare la distinzione tra i sessi nella cura delle persone nel momento in cui il tempo della cura diventa un tempo pubblico e condiviso nel suo valore universale.

Il Servizio Civile Universale e obbligatorio sarebbe una grande politica che aiuta la promozione delle competenze dei giovani nei beni comuni, a costruire concretamente la comunità e il welfare universalistico e comunitario. Darebbe un volto nuovo alla democrazia e avrebbe un grande valore simbolico. Si può tornare a discuterne?

Livia Turco

Lettera ad Avvenire (17 aprile 2020)

Per una società materna

18 Aprile, 2020 (16:22) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

E’ una scoperta che stupisce gli uomini per la sua intensità umana . Il  tempo della cura modifica l’identità maschile perché consente agli uomini di esplorare una nuova dimensione della vita, rompe gli archetipi del patriarcato che persistono  nel fondo del loro animo. Li rende padri più autorevoli e capaci di svolgere una funzione educativa più   efficace perché stanno  accanto ai figli,  sono con loro  a condividere    gli aspetti quotidiani della vita che mette a contatto con tutti i bisogni, i sentimenti ,i conflitti. Curare il corpo, procurare il cibo, capire il pianto ed il sorriso, inventarsi il gioco o partecipare ad esso, cercare di guardare le cose con gli occhi del bambino per capirlo meglio, cessano di essere dei dettagli cui si guarda distrattamente, diventano incombenze impegnative in cui devi essere attento ,disponibile, imparare a fare le cose per bene dunque acquisire competenze .L’esperienza della cura arricchisce e modifica l’identità maschile e contribuisce a rendere il tempo della cura un tempo sociale e non solo un tempo femminile.

Solo se donne e uomini vivono intensamente ed alla pari il tempo della cura sarà possibile arricchire le relazioni umane e praticare  quella “mescolanza” dei tempi di vita che  costituisce  l’ambizione di ciascuna persona . Perché   mescolare  i tempi della vita significa poterne  esplorare  tutte le sue dimensioni.Il tempo della paternità promuove una nuova identità maschile e femminile dove la cura e la dimensione pubblica sono esperienze ed ingredienti di vita di entrambi i sessi. Finalmente la cura delle persone, il lavoro e la polis, la dimensione pubblica, cessano di essere tra loro in conflitto.

In questo modo sarà possibile rompere in modo definitivo gli stereotipi di genere che sono alla base di tante forme di violenza degli uomini sulle donne.

Bisogna promuovere  la cultura del dono e della gratuità ed il valore della generazione,riscoprire il  valore della   funzione educativa   anche per scrivere una nuova grammatica dei  sentimenti: tra donne e uomini, tra genitori e figli; tra giovani ed anziani.

Bisognerebbe avere il coraggio di pensare e di parlare di una “società  materna e di una politica materna”,  che faccia vivere nella società e nella politica come  ingrediente prezioso  la cura della persona, la presa in carico dell’altro, la capacità’ di tessere   i legami che ci uniscono  alle persone, di promuovere l’autonomia, i talenti ,le abilità di chi è fragile.

Stiamo diventando una società sterile anche perché le relazioni umane si impoveriscono , perdono forza e calore.

L’etica della cura, che si sprigiona in modo particolare nell’esperienza della maternità ma che appartiene al materno che vive in ciascuna donna può immettere nella società e nella relazione con gli altri  energia  fiducia, calore umano, ottimismo.

E’ il rovesciamento della mistica della maternità, è l’idea che la relazione e la cura degli altri-dei bambini, dei vecchi- non sono responsabilità e destino privato e che non c’è specificità femminile nel pensare gli asili nido o nel richiedere i congedi parentali.

La cura delle persone deve diventare un grande obiettivo politico ,un orizzonte di vita, un modo di essere delle relazioni pubbliche, un tratto della democrazia. Che recupera in tal modo la sua  funzione propria che è la promozione dei beni comuni  e la partecipazione attiva delle persone. Rendendo  così’  concreta la sua capacità inclusiva e  realizzare l’ideale democratico dell’uguaglianza non solo di opportunità ma di partecipazione alla vita sociale e pubblica.

Non si tratta solo di rivendicare dei diritti, ma dobbiamo, donne e uomini ,essere capaci di costruire un progetto di cittadinanza sul riconoscimento dei legami reciproci e sulla capacità di prendersene cura. Bisogna avere l’ambizione di costruire una Società Umana.

Ed allora bisogna prendere di petto un’altra questione e porla al centro del dibattito pubblico: i processi di mercificazione dei corpi stanno diventando così invasivi e producono forti diseguaglianze tra donne che non possono essere tollerate in nome di una generica libertà personale. Mi riferisco alla pratica” dell’utero  in affitto” che vede donne ricche ricorrere alle donne povere delle parti povere del nostro continente per comprare il loro grembo materno ed avere un figlio/a. Come se il grembo materno fosse un oggetto qualunque .E, dimenticando tanti anni di esperienza e di elaborazione femminile e non solo che hanno nitidamente individuato nella relazione madre figlio/a che si forma nel grembo materno l’inizio della formazione di una persona e di una relazione che non può essere interrotta o snaturata. Perché il grembo materno non è solo un grembo fisico ma anche un grembo psichico in cui nasce e si forma la personalità del bambino attraverso la relazione con la madre.

Stiamo dimenticando queste elaborazioni e queste acquisizioni culturali e valoriali  in nome di un relativismo etico che trovo sconcertante. II tutto avviene senza un dibattito pubblico nella sinistra . Almeno si discuta dove stiamo andando e dove vogliamo andare.

Livia Turco

Le giovani compagne

18 Aprile, 2020 (16:19) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Era il maggio del 1974. In piazza San Carlo a Torino si teneva la chiusura della campagna elettale del referendum sulla legge sul divorzio con il comizio di Nilde Iotti. Segretario del PCI torinese era Iginio Ariemma, un comunista speciale, dirigente politico ed intellettuale che ci ha lasciato pochi mesi fa dopo una dura malattia consegnandoci un suo ultimo bellissimo libro “ Perché sono stato Comunista”. E’ stata quella la prima occasione in cui ho ascoltato e visto ,seppur da lontano, Nilde Iotti.

Avevo 19 anni, da un anno vivevo a Torino, Borgo San Paolo, dopo aver lascato il mio paese Morozzo in provincia di Cuneo in cui la parola comunista o era sconosciuta o era un infamia. Ero stata conquistata dalla proposta del Compromesso Storico di Enrico Berlinguer e dal suo carisma. La molla era la giustizia sociale che avevo imparato dallo splendido esempio di vita di mio padre operaio e dalla lettura dei Vangeli nella parrocchia del mio paese. Quella campagna elettorale fu la scoperta della militanza politica e della passione politica. Segretario della Federazione Giovanile Comunista era Piero Fassino. Indimenticabile quel casa per casa, mercati, scuole, fabbriche, parchi la domenica, anche le chiese ed i comizi in tutte le strade del Borgo con un megafono  che a volte aveva una voce gracchiante ! Piero ci invogliava, ci faceva trottare!

Quella sera eravamo stanchi ma molto effervescenti, soprattutto noi giovani eravamo convinti che avremmo vinto perché avevamo sentito una sintonia tra il nostro modo di parlare di famiglia basata sui sentimenti, sulla pari dignità tra donne e uomini, sulla priorità che avevano temi come il lavoro, il salario, i servizi sociali, la sanità pubblica. Andai a quel comizio con una particolare curiosità perché sapevo che Nilde Iotti era una donna molto importante. Avevo letto i suoi articoli su Rinascita, su Donne e Politica riviste preziose del PCI. Anche se non potevamo votare perché il voto a diciotto anni fu una conquista successiva. Quella sera rimasi avvolta dall’eloquio semplice, autorevole, pieno di forza di quella donna bella ed elegante  che parlava di nuova famiglia basata sui sentimenti , dei problemi delle famiglie italiane, che si rivolgeva alle donne  perché fossero protagoniste di un cambiamento della loro vita, della società, che si rivolgeva alla coscienza cattolica ricordando che noi  comunisti volevamo una unità famigliare vera perché basata sulla forza degli affetti e dei sentimenti. Quella sera imparai anche che i comizi del PCI in Piazza San Carlo erano un evento speciale: prima la gara tra le sezioni su chi portava più persone, poi il piacere di incontrarsi, baci ed abbracci, poi l’ascolto in rigoroso silenzio di quella che era per noi militanti una vera lezione , il discorso del dirigente, gli scroscianti applausi  e poi il commento in piazza e successivamente nelle riunioni della sezione del discorso medesimo.

Nilde Iotti mi conquistò. La seguivo nei suoi discorsi e nei suoi scritti. Quando la vedevo alle tribune dei congressi del partito mi colpiva un particolare . In quei luoghi severi, con poche donne al palco lei, durante la discussione sempre profonda ed infervorata, tirava fuori dal suo borsello lo specchio ed il rossetto che si passava sulle labbra con grande tranquillità ed eleganza. Si, rimanevo colpita da questo gesto che mi appariva molto trasgressivo! Quando fu eletta Presidente della Camera il 20 giugno del 1979 fummo molto orgogliose e felici. Una donna, la nostra Nilde, un’altra personalità del PCI dopo Pietro Ingrao. Non erano anni facili per noi giovani comunisti. La scoperta drammatica del terrorismo rosso, il dovere di difendere lo Stato che noi volevamo anche profondamente cambiare, il sostegno al Governo Andreotti dopo il tragico assassinio di Aldo Moro. Ci volle il carisma di Berlinguer e di Massimo D’Alema per farcelo accettare ma furono soprattutto le grandi conquiste di quell’indimenticabile 1978- legge sul lavoro per i giovani, riforma Basaglia, legge 194, legge 833 sul sistema sanitario-  il frutto di battaglie sociali che venivano da lontano ma che trovarono il loro suggello nel momento del dramma, della unità parlamentare e del dialogo sociale.

Nilde , Presidente della Camera che veniva dalla Assemblea Costituente, varò in quei durissimi anni importanti riforme dei Regolamenti parlamentari per rendere più efficace l’azione del Parlamento. La incontrai personalmente parecchi anni dopo, in quel doloroso 1984 , l’anno della morte di Adriana Seroni, grande dirigente politica, di Enrico Berlinguer e  di una carissima compagna, che aveva la nostra età, Giusi del Mugnaio. Era la Festa Nazionale delle donne comuniste che organizzammo a Torino  insieme a Lalla Trupia, Grazia Labate, la Sezione Femminile nazionale e tutta la mia bella squadra torinese. Una festa bella, colorata, piena di iniziative culturali nuove. L’avevamo costruita con cura per allontanare da noi quel profondo senso di tristezza ed anche di smarrimento, perché sapevamo che le donne nella società erano forti, c’era un onda lunga del femminismo che aveva coinvolto tutte, le operaie della Fiat, le donne cattoliche, le intellettuali. Vennero in tanti: Alessandro Natta, Giorgio Napolitano. Massimo D’Alema, ovviamente Piero Fassino.

E venne lei Nilde, allora Presidente della Camera, venne per ricordare la figura di Adriana Seroni. Fu prima di tutto un incontro umano bello. Voleva farci sentire la sua vicinanza, ci ascoltava con curiosità , ci incoraggiò ad essere forti e determinate nelle nostre battaglie. Mi resta nel cuore quel sentimento di vicinanza e di incoraggiamento. Smisi di vederla come la dirigente autorevole ma fredda e lontana. Quando fui chiamata da Lalla Trupia a far parte della Sezione Femminile Nazionale del PCI e poi quando divenni responsabile nazionale delle donne comuniste la cercavo sempre per confrontarmi con lei perché avevo colto che lei investiva su di  noi, su quelle che lei chiamava le “giovani compagne”.

Nella discussione politica interna non sempre mi ritrovavo con le sue posizioni. Io sono sempre stata convintamente vicina alle posizioni di Enrico Berlinguer anche nella sua ultima fase quando parlava di Alternativa Democratica, di centralità della questione morale e quella sua proposta, quel suo investire sui movimenti, sui nuovi soggetti politici come le donne, l’ambientalismo, il pacifismo non erano  condivisi da tutto il partito, anzi erano motivo di discussione. Anche Nilde non era molto d’accordo. Quando Achille Occhetto propose la Svolta della Bolognina nel 1989 per il superamento del PCI , mi furono di aiuto per districarmi nei miei contradditori pensieri e sentimenti l’intervento di  Nilde ed anche di Giglia Tedesco svolti nel Comitato Centrale a favore di quella svolta con argomenti che parlavano della necessità di un nuovo pensiero e di essere coerentemente parte della famiglia del socialismo europeo.

Con le “giovani compagne” tante, che non posso nominare tutte, decidemmo un’ azione di forte innovazione del partito , della sua cultura politica, partendo dalla convinzione che ci fosse una forza sociale, culturale delle donne che doveva diventare forza politica, e per questo doveva esprimersi con una forte autonomia ed un forte gioco di squadra. Quella che chiamavamo la trasversalità femminile: insieme donne dei partiti, il femminismo, i sindacati, le associazioni. ” Dalle donne la forza delle donne” era la parola d’ordine della Carta delle Donne Comuniste nata in particolare dal dialogo con il femminismo della differenza sessuale. Eravamo nel 1986. Nilde mi sostenne nella riunione della  autorevolissima Direzione del PCI dove le donne erano 4. Ci sostenne in tutte le nostre battaglie : contro la violenza sessuale, per il riequilibrio della rappresentanza,  quando nel 1987 raggiungemmo il 30% di donne elette alla Camera.

Da Presidente della Camera ruppe il protocollo e volle essere la prima firmataria della proposta di legge d’iniziativa popolare che avevamo elaborato noi donne comuniste “ Le donne cambiano i tempi” che prevedeva congedi parentali, riduzione dell’orario di lavoro, riorganizzazione dei tempi delle città. Partecipò alla manifestazione di lancio della proposta di legge che tenemmo in piazza del Pantheon a Roma il 9 aprile 1990 facendo un discorso che dimostrava ancora una volta quanto fosse vicina e condividesse la vita quotidiana delle donne ed avesse capito  la sfida culturale  e di trasformazione sociale che quella proposta conteneva. Diventata poi legge nel 2000(Legge 53 dell’8 marzo del 2000)con i Governi dell’Ulivo.  Nel corso degli anni ho portato nel cuore come un dono prezioso lo sguardo materno e complice che Nilde Iotti mi ha trasmesso durante passaggi politici cruciali dandomi sostegno e coraggio. Quando ero Ministra della Solidarietà Sociale dei governi dell’Ulivo, appena entravo nell’Aula di Montecitorio avevo bisogno di incontrare  quello sguardo e lo trovavo ancora più intenso e luminoso degli anni precedenti, seppure stanchi e sofferenti, perché nei suoi occhi brillava l’orgoglio della prima volta della sua sinistra  al Governo del paese. Quanta energia mi trasmetteva lo sguardo di Nilde.

Livia Turco

Dieci anni fa la Legge 38, contro il dolore e le cure palliative

19 Marzo, 2020 (12:45) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

E’ un triste compleanno quella della legge 19 marzo 2010 “Disposizioni per l’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore”. Tante persone stanno morendo per colpa di un virus maligno che non concede ai malati l’ultimo saluto dei propri cari.

Questa solitudine, questa lontananza dai propri cari, seppure alleviata dalla presenza affettuosa dei medici ed infermieri, è l’aspetto che più colpisce e ferisce il nostro animo in questo drammatico momento.

La solitudine è proprio ciò che vogliono evitare le cure palliative, il pallium, il mantello che avvolge il morente con l’amorevolezza delle relazioni umane e la cura della medicina.

In questi dieci anni la legge 38/2000 ha fatto del bene al nostro Paese , ha fatto crescere la cultura del sollievo dal dolore e della eguaglianza della dignità del fine vita.

Ha preso in carico tanti bambini e le loro famiglie costruendo politiche innovative, le cure palliative pediatriche iniziate dalla Fondazione Silvia Lefevre, come ho potuto ascoltare nel convegno del 21 gennaio scorso svoltosi all’ospedale Mayer di Firenze. Ha esteso la Rete degli Hospice e della assistenza domiciliare, ha avvicinato persone alle strutture per combattere il dolore severo , ha formato molti operatori sanitari.

Essa è stata il frutto della bella politica basata sull’ascolto degli operatori, dei volontari, di chi da tempo lavora sul campo. Una legge frutto del dialogo parlamentare in cui si sono confrontati diversi punti di vista culturali e valoriali, che fu votata all’unanimità anche se da parte della sottoscritta e di altre parlamentari rimase la contrarietà per la mancata soluzione del problema del riconoscimento della professionalità del personale che svolgeva già da anni attività nelle strutture di cure palliative e la critica all’inadeguato finanziamento.

La legge 38/2000 ha una storia che inizia con l’avvio degli hospice da parte di medici, giornalisti e volontari. Penso a Vittorio Ventafridda, Gigi Ghirotti, Virgilio Floriani. Ricordo inoltre una donna infermiera e poi medico , Cicely Saunders che fondò nel 1967 il San Cristofer Hospice, la prima struttura di cura palliativa al mondo.

Sul piano legislativo si iniziò con la legge istitutiva degli hospice varata da Rosy Bindi, gli ospedali senza dolore e l’istituzione della giornata nazionale del sollievo voluti dal Ministro Umberto Veronesi , il decreto per la semplificazione della prescrizione dei farmaci antidolore, il riconoscimento delle cure palliative pediatriche, il rifinanziamento della rete degli Hospice insieme al regolamento per la definizione degli standard dei medesimi e la istituzione di una Commissione sulla qualità delle cure e la dignità del fine vita che ebbi modo di realizzare da Ministra della Salute.

L’applicazione della legge vede molte criticità messe in rilievo dalla Relazioni Ministeriali e dalle indagini attivate dall’Osservatorio istituto presso la Fondazione Gigi Ghirotti realizzate attraverso l’ascolto delle persone con un questionario distribuito nelle strutture ospedaliere, negli studi medici e nelle farmacie(cui ho avuto l’onore di collaborare).

Le criticità sono: la scarsa conoscenza della legge da parte delle persone, la ancora inadeguata formazione del personale sanitario e del volontariato per il quale la legge prevede specifici corsi di formazione, la disomogeneità territoriale della rete degli hospice, il breve tempo trascorso negli hospice da parte delle persone che sono nella parte finale della vita, la disomogenea ed inadeguata diffusione della assistenza domiciliare e delle cure palliative pediatriche. La scarsa diffusione della cultura della lotta contro il dolore severo e dell’utilizzo delle strutture a questo dedicate.

Si conferma, a mio avviso, la necessità di avere nel Ministero della Salute un Ufficio dedicato alle cure palliative ed alla lotta al dolore per applicare la legge, Ufficio che negli anni passati aveva dimostrato una efficace utilità. Va riconosciuto che in questa legislatura il Parlamento ha riservato una rinnovata attenzione al tema ad esempio varando la norma che riconosce la professionalità degli operatori che hanno svolto attività nelle strutture di cure palliative.

La promozione della dignità del fine vita, che nessuno resti solo nella fase finale della vita, che si combatta per tutti e tutte il dolore severo: è la più grande sfida che sta di fronte al valore della eguaglianza.

La medicina delle cure palliative è un servizio alla salute ed al benessere delle persone Non dunque una medicina per il morente e per aiutare a morire ma una medicina per l’uomo che rimane una persona vivente fino alla morte.

La tragedia che stiamo vivendo dimostra il grande bene rappresentato dal Servizio Sanitario Pubblico, Universalistico e Solidale. Che dovrà avere grandi investimenti orientato da una concezione della salute come promozione del benessere, come attivazione delle competenze delle persone, come relazione di cura e presa in carico della persona attraverso una conversazione tra medico e paziente, con un forte investimento sulla professionalità degli operatori e sulla promozione della salute come indicatore di qualità di tutte le politiche, la salute in tutte le politiche, attraverso una visione globale della medesima.

Per questo futuro da costruire della sanità pubblica, il paradigma delle cure palliative - una medicina per l’uomo che rimane una persona vivente fino alla morte - può aprire nuovi orizzonti e soprattutto indica che la priorità è sempre la dignità della persona, la sua vita e la sua salute.

Livia Turco