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Le leggi e la vita delle persone

19 Novembre, 2019 (11:36) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Cosa sono le leggi nella vita delle persone, quanto sono conosciute, come sono utilizzate, come sono applicate? Quanto le riforme legislative hanno inciso nella storia politica, sociale e culturale del nostro paese? Quanto le donne ne sono state protagoniste ed in quale contesto il loro protagonismo è stato efficace? Rispondere a questi interrogativi attraverso il dibattito pubblico è questione cruciale per promuovere la buona politica ed una efficace azione di governo.

Il libro curato dalla Fondazione Nilde Iotti “ Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia “ (Ediesse Editore),proposto in una seconda edizione, sollecita tale ricerca e discussione ed aiuta anche a trovarne le risposte. E’ stato presentato e discusso martedì 29 ottobre 2019 presso la Casa internazionale delle donne a Roma con la partecipazione della Ministra Elena Bonetti , di Simona Feci Presidente della Società delle Storiche, di Giulia Iacovelli coordinatrice nazionale della associazione FutureDem. Il libro espone in ordine cronologico e descrive le leggi che hanno avuto le donne come protagoniste dal 1950, Legge Noce -Federici sulla tutela sociale della Maternità, fino alla legge 11 gennaio 2018 n.4, Disposizione in favore degli orfani per i crimini domestici, l’ultima della diciassettesima legislatura.

La seconda edizione del libro aggiorna la legislazione fino al 2018.La scansione e la lettura delle leggi consente di definire questa legislatura come contrassegnata da un efficace protagonismo femminile nelle Aule Parlamentari e nei Governi che si sono succeduti. Un protagonismo che si è dispiegato in tutti gli ambiti promuovendo un ampia gamma di leggi attinenti ai diritti civili, sociali, allo sviluppo economico, alla riforma della pubblica amministrazione, alla lotta contro le mafie, contro il caporalato, alla riforma della scuola, alla lotta contro la violenza sessuale, alla estensione a tutti i livelli istituzionali delle norme sulla parità di genere nelle istituzioni. Quanto sono conosciute queste leggi, quanto si sono incontrate con la vita delle donne? Sono questioni cruciali non solo per ottenere il consenso delle donne ma anche per applicare bene le leggi.

Ho avuto il privilegio di essere protagonista nelle battaglie per la conquista, la difesa e la realizzazione di molte riforme legislative. Quando sento rappresentare il Parlamento con il termine “poltrone”, quando sento trattare le norme legislative come cavilli burocratici e/o pezzi di carta qualsiasi mi viene un colpo al cuore. Sento il dovere di indignarmi e di reagire . Sento il dovere di testimoniare la fatica, le battaglie, il gioco di squadra ,la bella politica che è contenuta in molte conquiste legislative troppe volte dimenticate o non applicate. Sento il dovere di mettere in gioco la “cassetta degli attrezzi del buon governo” che quella fatica, quelle battaglie e la concreta esperienza di governo mi hanno consentito di accumulare. Per metterla a disposizione di altre e nuove generazioni di donne.

L’esperienza mi ha insegnato che per svolgere una efficace azione di governo bisogna avere un progetto, un ‘idea di società. Così abbiamo costruito la prima legge quadro sull’immigrazione (40/98); promosso la riforma delle politiche sociali ed un welfare dalla parte dei bambini e delle famiglie( 285/97 e 328/2000); la politica dei tempi di vita e di lavoro per vivere con pienezza tutti i tempi della vita(53/2000).Le leggi di riforma non nascono dalla testa illuminata di un legislatore ma dalla creatività e dalle competenze diffuse nella società.

Per questo è importante che chi governa e chi opera nelle istituzioni abbia come pratica quotidiana quella di “apparecchiare Tavoli” per ascoltare, imparare, condividere e poi decidere, assumersi la responsabilità della scelta. Senza uno di questi Tavoli, ad esempio, non sarebbe mai nato l’articolo 18 della legge 40/98 che prende in carico le vittime di tratta, norma che ha fatto scuola in Europa e da cui è poi derivata una elaborazione complessiva di lotta contro la tratta degli esseri umani. Bisogna tessere un legame costante con la vita delle persone ed essere consapevoli che il tempo dell’ascolto è uno dei tempi più preziosi e ben spesi.

Anche perché suggerisce che cosa bisogna fare. E’ dall’ascolto delle madri dei ragazzi disabili che è nato il congedo di due anni per assistere i figli anche maggiorenni con grave disabilità, congedo retribuito e con contribuzione figurativa(Legge 53 /2000).Successive sentenze della Corte Costituzionale hanno esteso tale congedo ai figli o parenti di persone gravemente non autosufficienti, unica misura oggi esistente per la presa in carico delle persone non autosufficienti. Quante volte mi sono sentita dire dalle stesse mamme dei ragazzi disabili :”ma quando approvate quella legge, ho urgenza che mio figlio possa utilizzarla.” Il tempo della decisone politica deve essere in sintonia con i tempi della vita delle persone.

E’ stato uno degli insegnamenti più preziosi che mi fatto vivere con angoscia il tempo lungo della approvazione di una legge. Legiferare e governare significa fare i conti con le risorse, con la sostenibilità economica. Dunque è cruciale saper scegliere le priorità per orientare il tempo e le risorse. Quando si è approvata una legge bisogna applicarla. Sembra una banalità. Nei fatti non è così. Manca nel nostro Paese una cultura della applicazione delle leggi, manca anche nella mentalità e nell’atteggiamento di noi cittadini. Approvata una legge bisogna informare i cittadini della opportunità contenuta in quella legge. Si può esigere un diritto solo se lo conosci.

Quanto avrei voluto che la legislatura proseguisse per fare una campagna informativa sul congedo parentale e le altre opportunità contenute nella legge 53/2000 e nel Testo unico sulla Maternità del 2001 !! Applicare una legge per promuovere il bene comune significa monitorarla, valutare i suoi esiti e poi attraverso un dibattito pubblico valutare quali correzioni apportare. Nel nostro Paese invece le leggi si distruggono e si cambiano a prescindere dai risultati ottenuti ma in base alla scelta politica ed ideologica .

E’ prassi abituale che quando arriva un nuovo governo per principio cancella quello che è stato fatto dal governo precedente. Così facendo si arrecano dei danni al paese. Come nel caso della lotta contro la povertà. Nel 1998 (DL.18 giugno 1998 n.237) il Governo Prodi decise la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento in 39 Comuni Italiani .La sperimentazione nasceva dalla volontà di dotare il nostro paese di una misura contro la povertà e dalla consapevolezza di quanto fosse tale misura esposta al rischio della trappola dell’assistenzialismo o dell’abuso ed andava verificata la capacità dei Comuni di promuovere progetti di inserimento attivo delle persone in condizione di povertà. Per questo la sperimentazione si era dotata di una Commissione Tecnica di esperti che aveva il compito di redigere una Relazione di Valutazione degli esiti della sperimentazione che avrebbe dovuto essere discussa in Parlamento per poi elaborare in modo compiuto una legislazione di lotta alla povertà.

Il Ministro che mi successe (Roberto Maroni) decise subito che il Reddito Minimo d’Inserimento era una misura assistenzialistica e che pertanto il suo governo l’avrebbe abbandonata. Così sono trascorsi vent’anni prima che fosse varato il Reddito di Inclusione Sociale( Legge 15 maggio2017 n.33 ).Anche essa neppure sperimentata e già superata dall’attuale Reddito di Cittadinanza.

Il libro suggerisce quanto sia prezioso praticare il reciproco riconoscimento tra donne e tra generazioni di donne. Madri che trasmettono alle figlie e le sostengono, figlie che riconoscono le madri e sperimentano nuove strade. La solidarietà tra generazioni di donne è fondamentale per costruire una genealogia femminile nella politica, fonte della autonomia e dell’esercizio della libertà, per camminare con le proprie gambe. Dalle donne la forza delle donne!! Solo così le donne hanno vinto.

Oggi bisogna passare dalle leggi alle politiche! Asili nido, congedi parentali, sostegno alla maternità e paternità , buona e piena occupazione femminile, lotta contro il femminicidio e contro la tratta degli esseri umani, non sono le politiche delle donne, sono le politiche cruciali per lo sviluppo del paese! Per questo devono essere centrali e prioritarie nell’azione di governo.

Questo il cambio di passo che il nostro Paese deve fare. Subito! Perché è già troppo tardi !

Politiche da costruire e condividere con il popolo delle donne, costruendo un forte legame sociale, un forte legame tra istituzioni e cittadine, cittadini del nostro Paese.

Livia Turco  

Caro Rampini, ti spiego io cos’è la sinistra

16 Novembre, 2019 (09:15) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Ho ascoltato Federico Rampini a Piazza Pulita (giovedì 14 novembre) e non osavo credere alle mie orecchie! C’è un limite a insultare la sinistra. C’è un limite a cavalcare la retorica sul buonismo della sinistra facendo smarrire di cosa stiamo discutendo.

Sono cresciuta anche io alla scuola del PCI che resta la mia scuola; ho contribuito a fare una legge organica sulla immigrazione che parlava di regole, di diritti e doveri a partire dalla stella polare della dignità umana. Mi occupo tutti i giorni di immigrazione da cittadina e la gente di sinistra che incontro non fa parte di salotti ma lavora nelle scuole, negli ospedali, nei servizi sociali e nelle periferie.

Si preoccupano di curare chi è in difficoltà anche se negro, fanno partorire le donne anche se non hanno il permesso di soggiorno come prevede la legge, cercano di dare vitto e alloggio a quei giovani, a quei lavoratori che avevano un lavoro e che con la cancellazione della protezione umanitaria sono diventati clandestini e scarti umani.

Popolo di sinistra che accoglie nelle proprie case minori abbandonati, che dedica il proprio tempo per insegnare la lingua e la cultura italiana. Che aiuta i giovani a superare i deficit scolastici, che combatte le droghe e chi le procura.

Cosa dobbiamo dire a queste persone? Che stanno sbagliando, che devono rinunciare al dovere di solidarietà come previsto dall’articolo 2 della Costituzione?

Penso che il dovere di autorevoli giornalisti come Rampini sarebbe quello di raccontare questo meraviglioso popolo e ringraziarlo, farlo conoscere. Solo così si costruisce la legalità, si avvicinano gli italiani e gli immigrati, si costruisce convivenza.

La sinistra va spronata ad avere coraggio, a chiamare a raccolta popolo e intellettuali a ragionare su come costruire l’Italia e l’Europa della convivenza, su come rendere concreto il motto europeo della unita nella diversità.

In Italia da anni si pratica il blocco dell’ingresso regolare per lavoro. Nel 2019 i nuovi ingressi sono 200.000 di cui 63.500 bambini figli di immigrati nati in Italia e gli altri sono persone già residenti nel nostro Paese che hanno cambiato il motivo del soggiorno.

Una sinistra coraggiosa chiede che si aprano canali regolari dell’ingresso per lavoro come richiesto da alcuni settori della nostra economia, cerca di togliere dalla illegalità le migliaia di persone con la regolarizzazione ad personam, abroga i decreti sicurezza di Salvini, costruisce una nuova legge quadro sulla immigrazione.

Promuove nei quartieri, nelle fabbriche e nelle scuole l’incontro tra italiani e immigrati. Apre un dibattito su “Come stiamo insieme noi e loro”, quale forma di convivenza superi i limiti del multiculturalismo e dell’assimilazionismo. Ci sono tanti quartieri, comunità, scuole, fabbriche in cui è cresciuta la convivenza.

Perché non imparare da queste esperienze? Perché non parlare del dovere degli immigrati alla partecipazione politica per dare il loro contributo alla vita della comunità?

Una sinistra coraggiosa guarda il volto dello sfruttamento, fa la fatica di unire le persone che vivono gli stessi problemi, bianchi o neri che siano, fa la fatica di costruire una relazione tra queste persone favorisce l’incontro la conoscenza il  gioco di squadra tra loro.

All’odio bisogna opporre la forza della convinzione che “insieme si può”. La forza del noi, la forza della vita concreta, la forza delle persone in carne e ossa.

Quelle che Salvini non conosce. A lui bastano gli slogan e i selfie. Ma la vita dura richiede la forza delle passioni. La pratica tenace e coerente dei valori più difficili come la tutela della dignità e della vita umana.

Livia Turco 

Dimenticare le curde rende fragile la nostra libertà di donne

16 Ottobre, 2019 (08:53) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

No, non possiamo lasciare massacrare le donne e gli uomini del popolo curdo. Hevrin Khalef, la sua storia il suo impegno e la sua barbara uccisione ci appartengono.

E insieme a lei ci appartengono le migliaia di combattenti per la libertà, la democrazia, la dignità femminile. Dimenticarle o sentirle lontane rende fragile la nostra libertà di donne. L’appello lanciato qui dal gruppo “Se non ora quando libere” va raccolto.

Non solo per partecipare doverosamente alle mobilitazioni in corso ma per guardare più in profondità e capire che la lotta delle donne curde per la loro libertà è la conferma drammatica e concreta che la lotta per la libertà femminile non ha confini e deve nutrirsi del riconoscimento e della pratica della pluralità di culture e religioni. Perché in ciascuna di esse agisce da tempo la libertà femminile.

La battaglia accanto alle donne curde per la libertà, l’indipendenza, la democrazia e in particolare la lotta contro l’Isis dice a noi donne europee che l’orizzonte della nostra libertà e della nostra dignità passa attraverso questa pratica di relazione con donne di culture e religioni diverse, passa attraverso la scoperta dei luoghi nel mondo in cui agisce la libertà femminile per conoscerla e sostenerla.

Dobbiamo imparare a praticare nella nostra vita quotidiana questo allargamento del confine e il rapporto con la pluralità di culture e religioni. A partire dalle nuove italiane che vivono con noi e che nonostante tanti anni di convivenza restano a noi invisibili come le persone della porta accanto con le quali non ci siamo neanche poste il problema di costruire una relazione di conoscenza e di condivisione di gesti, parole e pensieri.

Ci sono obiettivi immediati che dobbiamo perseguire attraverso una azione europea come il cessate il fuoco, la sospensione immediata della fornitura di armi e l’embargo verso la Turchia, una efficace azione umanitaria.

Ma c’è un orizzonte nuovo da praticare ed entro cui scandire la nostra libertà di donne europee. Partendo dalla consapevolezza che il mito del confine, del guscio, della omogeneità culturale diventati paradigmi del pensiero e ingredienti del sentimento comune in questo nostro tempo sono veleno mortale per la libertà femminile.

Con le donne curde perché quel popolo abbia una patria e sia riconosciuto nella sua identità culturale e nella sua storia, perché sia sconfitto l’estremismo islamico, per la democrazia, la pace e la libertà.

Con le donne curde per costruire da donne un mondo nuovo, dai confini porosi, dal volto plurale, scandito dalla democrazia inclusiva e della convivenza.

Livia Turco

Il diritto all’amorevolezza non sostituisce il principio dell’autodeterminazione

8 Ottobre, 2019 (09:41) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Lettera a Quotidiano Sanità dell’8 ottobre 2019 in risposta all’articolo del professor Maurizio Mori


Gentile Direttore,

l’articolo del Prof. Maurizio Mori a proposito di una mia riflessione sul tema della Amorevolezza mi consente di sviluppare e precisare il mio pensiero. La mia riflessione seppur sollecitata dal dibattito che si è sviluppato sulla sentenza della Corte Costituzionale del 25 settembre in merito al suicidio assistito - sentenza che condivido ed apprezzo nei suoi contenuti - non aveva come riferimento la nuova normativa sulla suicidio assistito. Scaturiva e scaturisce da quello che vedo troppo trascurato nell’azione concreta e nel dibattito pubblico che è la condizione di sofferenza e fragilità delle persone costrette ad una lunga convivenza con la malattia e le diseguaglianze che la mancata presa in carico di tali situazioni crea e determina.

Diseguaglianze non viste, non nominate, taciute anche quando imperversa il dibattito sulla lotta alle diseguaglianze. E questo, mi sia consentito, preoccupa ed indigna la mia anima di persona di sinistra.

Non penso che il diritto alla amorevolezza sostituisca il principio dell’autodeterminazione.

Parlare di terzo diritto è una provocazione per dire che la presa in carico amorevole delle persone non può essere confinata nel buon cuore e nella filantropia ma deve configurarsi come diritto della persona garantito dal Sistema Sanitario Nazionale, dalle politiche sociali e dalla professionalità degli operatori oltreché dalla partecipazione attiva delle persone e dalla loro capacità di costruire legami sociali e relazioni umane.

Il punto è come intendere l’autodeterminazione e più precisamente quale la concezione della persona che deve decidere.

La persona come soggetto relazionale che riconosce il suo legame con l’altro ed in cui il legame con l’altro è parte attiva ed integrante dell’esercizio della libertà individuale? Oppure l’io solipsistico, individuo solitario che non riconosce il legame con l’altro e quanto questo legame sia partecipe dell’esercizio della scelta e della libertà individuale?

Tante volete sento prevalere questa seconda, anche nella cultura della sinistra.

Io credo che essa impoverisca sia nella elaborazione sia soprattutto nella pratica la relazione umana con la persona.

Credo molto semplicemente che l’autodeterminazione sia della” persona” così come definita dall’articolo 2 della nostra Costituzione, dunque soggetto in relazione con l’altro, aperto all’altro che valorizza il legame umano e dunque l’inderogabile dovere della solidarietà.

Per il legislatore, per colui che governa esercitare l’amorevolezza significa: immergersi nella vita quotidiana delle persone che ti stanno accanto, condividere i problemi, le ansie, ricercare insieme le soluzioni e non guardare i problemi dall’alto, stando fuori, giudicando dall’esterno come fanno troppe volte anche i cantori della sacralità della vita; non perdere mai la consapevolezza che la persona è unica ed irripetibile e dunque è buona ed è efficace una norma ed un provvedimento solo se riconosce la irripetibilità, e dunque la libertà, di ciascuna persona; riconoscere che ciascuna persona vive la sua vita in una comunità di affetti, in relazione con l’altro ed è in essa e tramite essa che esprime e costruisce la sua autonomia. Una persona quando non è piu’ capace di intendere e volere può esprimere la sua volontà se ha accanto un altra persona che l’ascolta, la conosce, condivide la sua esperienza di vita.

Questa relazione di fiducia e comunità di affetti è ciò che la legge deve promuovere e riconoscere e valorizzare per prendere le decisioni che riguardano la persona malata e fragile, in fine vita.

Il riconoscimento che ciascuna persona ha bisogno dell’altro ci sollecita a scrivere una nuova generazione di diritti, i diritti affettivi, di cui l’amorevolezza, il diritto a vedere riconosciuta la persona che ti ha voluto bene e di cui ti fidi. Come avviene nella figura dell’amministratore di sostegno e nella legge sul testamento biologico. Il diritto concreto ad essere preso in carico, a non essere lasciato solo. Insisto e’ questo il problema troppo eluso, trascurato, non visto.

E’ questo “dovere costituzionale alla solidarietà” che è troppo disatteso sia dalle persone che dalle politiche pubbliche. Altro che filantropia.. !! Solo la cultura individualista e la cultura dello scarto considera la solidarietà pura filantropia.

E’ questo il problema alla base della mancata applicazione della legge 38/210 sulle cure palliative.

Per applicare la legge ci vuole la volontà politica dei decisori pubblici di investire su questa fase della vita, ci vuole una battaglia culturale che faccia confrontare le persone sul problema della fragilità, della sofferenza e della morte, bisogna formare gli operatori sanitari e sociali non son solo sul piano della competenza ma dell’esercizio della presa in carico amorevole dato che compito del medico è quello di prendersi cura in modo olistico della persona. Bisogna formare dei cittadini competenti che siano in grado di esigere i propri diritti.

Il mio pensiero pieno di gratitudine va alle tante realtà di cittadinanza attiva che si impegnano, che si prendono cura e che con il loro impegno promuovono cura e legami sociali. Inclusione e coesione sociale. Ai tanti operatori che nonostante le difficoltà prendono in carico in modo amorevole le persone e considerano l’amorevolezza parte integrante dell’esercizio della professione e della competenza.

Livia Turco

A Flamigni, da laica, dico che parlare di “Amorevolezza” non è una stupidaggine

4 Ottobre, 2019 (09:41) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Lettera a Quotidiano Sanità del 4 ottobre 2019 in risposta all’articolo del Professor Carlo Flamigni

Gentile Direttore,

vorrei rispondere a quanto scritto dal professor Carlo Flamigni in merito al mio articolo sul diritto all’amorevolezza. La mia riflessione nasce dalla mia esperienza di cittadina laica che si  è misurata e si misura  con le condizioni di lunga convivenza con la malattia.

Come donna politica che nella vita si è sempre battuta per la libertà di scelta, mi sono impegnata in Parlamento per la legge sul testamento biologico e sono stata autrice della legge 38/2010 sulle cure palliative e la lotta contro il dolore e come Ministra ho promosso provvedimenti concreti come le risorse per gli hospice, i loro standard, la professionalità degli operatori, le cure palliative pediatriche, i comunicatori per i malati di Sla, l’aggiornamento dei Lea.

Mi sento ora impegnata  da cittadina a portare avanti queste battaglie perché leggi importanti siano applicate.

E’ proprio questa esperienza umana sul campo che mi fa vedere quanto siano diffuse  le situazioni  di dolore da lei egregiamente descritte, quante eccellenze vi siano di presa in carico delle persone colpite da tale dolore da  parte del nostro sistema sanitario ma quanto siano diffuse le situazioni in cui il servizio sanitario e sociale non arriva o non arriva in modo adeguato.

E di quanto siano diffusi i fenomeni di abbandono e di solitudine. Che colpiscono in particolare i più poveri. Sono una donna di sinistra ed ho a cuore la giustizia sociale. Mi indigna profondamente constatare che la più tragica delle diseguaglianze è anche quella più nascosta e taciuta ed è  la diseguaglianza nella fragilità, nella non autosufficenza e nel fine vita.

Se non hai una famiglia con risorse adeguate, se non hai le informazioni adeguate, se sei solo,  vivi la tua fragilità e la fase finale della vita in stato di abbandono Questo non lo accetto! Mi indigna! Mi indigna che chi opera nella sanità e nel sociale faccia finta di non vedere o non abbia testa e cuore per vedere queste situazioni di abbandono.

Questa è la questione che ho inteso sollevare. L’ho fatto con il cuore.

Anche perché la parola Amorevolezza che per il professor Flamigni sembra sia una stupidaggine mi è scaturita dalla relazione umana con persone in carne ed ossa che chiedevano  uno sguardo amichevole ed un po’ di calore umano.

Livia Turco

No alla società del guscio

13 Luglio, 2019 (10:04) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

La macabra retorica salviniana contro gli immigrati sta saldando ceti sociali e culture diverse attorno ad una idea di società. La società del “ guscio” per usare una espressione secondo me efficace di Richard Sennet. Il Guscio protettivo non vuole gli immigrati, difende il territorio in cui vive, la sua economia ed identità culturale. E’ popolata da individui che  vivono in solitudine , perché soffrono la rottura dei legami sociali e vivono in condizioni di fragilità, soffrono per  mancanza di reddito e di certezze nella propria vita; ma è popolata anche da  individui soli  che  esaltano la cultura individualista del fare da sé e del pensare solo a se’ nel condurre l’azienda, nella gestione della sua partita Iva, nella più generale partita della vita. Nel “guscio” troviamo la persona sola che cerca  protezione alla sua fragilità e la persona forte, individualista che vive le altre persone ed i legami sociali come un impaccio al suo essere competitivo, chiede di essere lasciato libero nel suo egoismo, di non dovere nulla a nessuno,  di sentirsi sicuro di non correre il rischio di vedere il suo territorio minacciato dall’altro. Cosa tiene insieme nello stesso “ guscio” l’individuo solo e fragile e l’individuo forte, egoista e competitivo? La domanda di protezione sociale ed economica, di sicurezza, di identità territoriale, di difesa del proprio territorio. La diseguaglianza sociale e la paura degli immigrati sono i collanti più forti nell’esprimere questa inedita domanda di protezione. Anche se l’ingrediente culturale dell’individualismo , l’esaltazione egoistica del fare da sè, la riduzione della persona umana a consumatore, l’esaltazione edonistica del puro apparire viene da lontano, dalle politiche liberiste ed in Italia dal Berlusconismo. 

Ciò che colpisce in modo particolare guardando alla società italiana ed al consenso del vicepremier Matteo Salvini, con la grave e patetica subalternità del partito dei Cinque Stelle,  è la constatazione di quanto sia profondo, radicato e trasversale il rifiuto degli immigrati. In un paese che nel corso della sua storia  ha saputo far fronte ad emergenze umanitarie  ripetute con spirito di accoglienza e solidarietà al di là di chi ci governava, come è potuto sedimentarsi questo stereotipo dell’invasione e questo sentimento del rancore? Perché  anche nell’animo di tante persone di sinistra si è radicato il  “mandiamoli a casa loro”?  Nel rifiuto degli immigrati  contano  la crisi economica, il conflitto tra poveri , i problemi irrisolti del degrado urbano, le condizioni di insicurezza, il sentirsi abbandonati dall’Europa. Ma c’è qualcosa di più profondo se il valore della solidarietà e dell’accoglienza si è smarrito e se non si riesce dopo trent’anni di immigrazione e dopo che l’Italia è diventata un paese con una componente stabile di popolazione immigrata che, in grande parte, grazie alle proprie forze, si è  integrata, a liberarsi dallo stereotipo dell’immigrato usurpatore.

Qualcosa che ci chiama in causa come sinistra nel modo con cui abbiamo  letto ed interpretato il fenomeno dell’immigrazione , nel modo con cui lo abbiamo governato. Sintetizzo così la mia analisi: abbiamo fatto delle buone politiche nei governi nazionali e locali ma non abbiamo percepito che nel governo dell’immigrazione conta molto la dimensione simbolica, l’immaginario, il sentimento. Le nostre parole sono state solidarietà, accoglienza, l’immigrato risorsa che fa i lavori che gli italiani non fanno più e che salva le nostre pensioni. Raccontiamo questo immigrato risorsa  con le aride cifre dei dati Inps non con i volti e le storie vere delle persone in carne ed ossa. Non  siamo riusciti a far vedere gli immigrati reali nella loro positività.

E’ accaduto solo nella campagna che abbiamo fatto “ L’Italia sono anch’io”(2012-2013)con i ragazzi delle seconde generazioni per il diritto alla cittadinanza. Ricordo bene quella campagna in cui fummo protagonisti in tutta Italia con il Forum Pd sull’immigrazione, insieme con la rete dei Comuni e delle Associazioni con lo slogan “ Chi nasce e cresce in Italia è italiano”. In  quella occasione quei volti fecero breccia nel cuore e nell’immaginario dei cittadini italiani, ruppero lo stereotipo fino ad allora consolidato dell’immigrato o vittima da aiutare o usurpatore da cacciare. L’immigrato diventa finalmente cittadino come noi con diritti e doveri. In quel caso, difronte a quei volti che risultavano normali e familiari (è l’amico di mio figlio!!)emerse nella mente e nel cuore degli italiani una nuova immagine dell’immigrato accompagnato da un sentimento di empatia. Non caso quella campagna trovò ampio consenso nella società. La battaglia per lo ius soli non fu solo il perseguimento di una politica specifica che superava una grave discriminazione esistente nel nostro ordinamento verso le seconde generazioni di immigrati/e ma lo strumento che aveva veicolato nella società un nuovo immaginario e fatto circolare un nuovo sentimento verso gli immigrati. Questo nuovo sentimento andava sostenuto con determinazione proseguendo nella società e nelle istituzioni la battaglia perché quei ragazzi fossero riconosciuti italiani. La questione è che noi sinistra non abbiamo mai preso di petto sul piano della elaborazione culturale, del dibattito pubblico e della costruzione di una narrazione il tema:  “come stiamo insieme? cosa facciamo insieme? Come costruiamo comunità, cittadinanza, convivenza?”. Abbiamo costruito delle buone politiche di convivenza  nazionali e locali  ma esse non hanno parlato, non  hanno prodotto immagini, simboli,  non hanno raccontato una cultura, un modo di essere diverso della nostra società   e delle relazioni tra di noi.

Abbiamo consentito che nel dibattito pubblico imperversasse un immigrato astratto. Abbiamo il dovere oggi di contrastare in modo efficace la politica razzista del governo cercando di parlare al cuore delle persone che dicono no agli immigrati intessendo con loro un dialogo che dovrà essere lungo, paziente e costante. Ma fermo. Che aiuti a riscoprire il senso della solidarietà umana convincendo che senza di essa saremo tutti travolti e aiutando con la forza dell’esempio a scoprire l’umanità dell’altro. Conta dunque la relazione umana, il legame sociale, lo sforzo di fare incontrare nella quotidianità persone vere che vivono insieme gli stessi problemi: il lavoro che manca, la povertà, il degrado urbano. Dobbiamo dimostrare che abbiamo comuni problemi italiani  ed immigrati e che insieme possiamo risolverli  e costruire una società umana e sicura per tutti e tutte.

Dobbiamo far sentire vincente l’idea che “Insieme si può”. Lo dobbiamo e possiamo fare nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri luoghi di lavoro.

Lo dobbiamo fare da cittadini . Lo deve fare la sinistra e la politica. Se vuole rinascere la sinistra deve partire da qui, dalla costruzione del legame umano e sociale nel luogo del rancore e del conflitto vero l’altro  per costruire conoscenza reciproca, riconoscimento reciproco, guardarsi e scoprirsi comuni cittadini di un comune territorio,  di una comune patria e nazione. La sinistra deve dare volto , voce e forza all’Italia della Convivenza che c’è , che agisce come si è visto a Milano  a Roma, a Napoli, a Lampedusa nei porti e nei centri di accoglienza, tra le famiglie che accolgono i giovani cui è stata rifiutata la protezione umanitaria e da persone stanno diventando scarti sociali e soggetti illegali. Costruiti ad arte dal cinismo di Salvini per poter alimentare il suo immaginario e la sua retorica dell’immigrato brutto e cattivo. La sinistra deve esserci nei luoghi in cui colpevolmente non c’è stata, accanto a Soumalaya Sacho ammazzato mentre era sfruttato nelle campagne del Sud.

A sostegno della lotta dei suoi compagni che insegnano a tutti noi il valore della dignità umana come sta facendo il sindacalista e lavoratore Aboubakar Soumahoro. Come trent’anni fa nell’ agosto del 1989 fu accanto a Jerry Masloo, senegalese che raccoglieva pomodori, ucciso da un gruppo di balordi locali. Bisogna costruire una grande Conferenza sull’Immigrazione e la Convivenza, bisogna farlo ora, subito,  chiamando a raccolta questa Italia della convivenza, coinvolgendo anche forze politiche europee e società civile europea. Ma anche facendo un viaggio nei luoghi del rancore per ascoltare, per capire, per risolvere i problemi  Bisogna costruire una Piattaforma Europea; bisogna modificare radicalmente la legislazione italiana mettendo al centro misure che rendano praticabile e conveniente l’ingresso regolare ed affrontare finalmente il tema : come costruiamo il motto dell’Unione Europa dell’Unità nella Diversità?

Come facciamo diventare questo motto una pratica di costruzione della convivenza ed un idea di società della convivenza? Per combattere la paura e costruire un sentimento di sicurezza è da qui che bisogna partire. Il governo efficace dell’immigrazione è misurabile dalla qualità della convivenza tra europei ed immigrati che si realizza nei singoli paesi dell’Unione. Lo confermano realtà come la Germania, la Danimarca, il Belgio, la Svezia che hanno saputo non solo promuovere politiche di integrazione, sostenute da un dibattito pubblico ma le hanno innovate superando l’approccio assimilazionista e multiculturalista e cercando di rendere concreta l’idea forza della “interazione”. In Italia non c’è mai stato un dibattito pubblico su questi temi salvo il breve periodo dei governo dell’Ulivo con l’approvazione della legge 40/98 che prevedeva una Commissione Nazionale per le politiche di integrazione, risorse pubbliche del Fondo Nazionale per l’integrazione ed una legislazione contenente diritti sociali  e doveri connessi alla dignità della persona ed alla permanenza sul territorio. La Bossi Fini ha abrogato in gran parte quelle norme, ma molte sono state successivamente ripristinate  da sentenze della Corte Costituzionale.

Al di là delle norme si è però  sedimentata nel nostro paese, attraverso un originale welfare locale e comunitario, una Via Italiana alla Convivenza, ci sono nei comuni e nelle città , nelle scuole, nelle fabbriche, nei reparti di maternità, nei servizi sanitari e sociali tante esperienze concrete che parlano di successi della convivenza. Conoscerle, interrogarle, imparare da queste esperienze attraverso un dibattito pubblico è, secondo me, il modo efficace per contrastare la retorica dell’immigrato usurpatore e fare breccia nel cuore degli italiani. Perché entra in gioco la forza dell’esempio e della esperienza direttamente vissuta.

Livia Turco

Da Il Foglio dell’11 luglio 2019