Il Blog di Livia Turco

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Il dovere di reagire

18 Luglio, 2018 (15:14) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

I corpi della donna e del bambino ritrovati di fronte alla costa della Libia mi urlano nel cuore dolore, rabbia, indignazione; mi urlano il dovere di reagire. Il dovere di chiedere a me stessa e alle altre donne di trovare le parole, i gesti, la forza per rompere le catene della paura entro cui la politica dei porti chiusi e dei confini spinati di Salvini e del suo governo ci vuole incarcerare.

Dobbiamo farlo prima di tutto noi donne perché conosciamo il valore del “bene comune” che la destra i e il governo vogliono distruggere: la convivenza possibile tra italiani e immigrati. Noi abbiamo scoperto e imparato anche attraverso duri conflitti che “insieme si può”: insieme si può vivere e convivere, si possono affrontare i problemi più difficili come quelli della violenza, del degrado nei quartieri, del lavoro che manca, dei figli lasciati soli, dei servizi troppo costosi, perché sono gli stessi problemi che vivono tante donne italiane e tante donne immigrate.

In questi anni di durissima crisi economica tante famiglie hanno retto perché c’è stata una inedita catena della solidarietà femminile: mamme, figlie, nonne, nipoti, bisnonne e pronipoti che si aiutano tra loro e che non hanno potuto fare a meno di loro: le nuove italiane, le immigrate e le rifugiate.

Da oltre trent’anni italiane e immigrate hanno imparato a vivere insieme condividendo i compiti di cura, la crescita dei figli, la cura degli anziani. Ma anche la a vita nelle scuole, nei quartieri, nella società e nelle istituzioni. Hanno scoperto che sono i gesti della vita quotidiana che costruiscono convivenza: aspettare i figli che escono da scuola, preparare un pranzo, organizzare una festa.

Nella vita quotidiana c’è anche la paura di essere violentate da un immigrato oppure da un italiano, magari quello stesso presso cui si presta il lavoro di cura; la paura che l’altra, l’immigrata veda riconosciuto il diritto alla casa popolare a tuo scapito oppure il posto all’asilo nido; la paura dovuta al fastidio per il modo diverso con cui vive la persona che ti sta accanto.

Le donne hanno imparato che la paura si rompe quando le persone si guardano in faccia, si parlano, entrano in gioco le relazioni umane. Le paure si rompono quando entra in gioco una buona politica che risolve i problemi concreti e sollecita le persone a conoscersi, a costruire una relazione umana e sociale. La paura si combatte con la politica operosa e con la forza delle relazioni umane e sociali.

Nella relazione con l’altro si viene a contatto con la sua umanità, si scopre il suo volto, si guardano i suoi occhi e così cadono le maschere del pregiudizio. Scattano quei sentimenti che parlano un linguaggio universale come la solidarietà, il riconoscimento, l’amicizia. Conoscersi e riconoscersi, costruire relazioni umane sono il nutrimento ed il cuore della cittadinanza.

Le leggi e i diritti rischiano di ridursi a gusci vuoti se non sanno trasmettere il calore delle relazioni umane. Le donne che nel nostro paese sono l’anello forte della convivenza devono entrare in campo e proporre la pratica politica della cura delle relazioni umane, per rompere la paura, la globalizzazione della indifferenza e costruire la globalizzazione della dignità umana.

La cura delle relazioni per rendere vivibili le nostre città, per vivere insieme i beni comuni, per condividere le difficoltà, per avere il coraggio di prendere la parola in luogo pubblico, per costruire sicurezza e democrazia. Non c’è democrazia, non c’è sicurezza, non c’è libertà dalla paura senza la cura delle relazioni umane.

Con la cura delle relazioni umane si può sconfiggere nel cuore delle persone il messaggio brutale di chi gioca sulle divisioni, sulle contrapposizioni, Con la cura delle relazioni l’altro non è più l’estraneo o il nemico. Costruiamo una alleanza tra le donne italiane e le donne immigrate per dimostrare che insieme si può! Costruiamo azioni condivise per comuni obiettivi.

Un’Europa della pace e dello sviluppo. La dignità del lavoro. La scuola interculturale per tutti. Il Welfare delle sicurezze per tutti. La partecipazione politica a partire dai nostri quartieri e luoghi di lavoro. Abbiamo strumenti importanti coma la nostra Costituzione e la Carta Europea dei Diritti Umani Fondamentali.

Incontriamoci, discutiamo insieme, costruiamo in ogni città i tavoli della convivenza, luoghi inediti di partecipazione politica per affrontare insieme i problemi della vita quotidiana e il futuro del nostro paese e della nostra Europa. Per costruire insieme un altra politica dell’immigrazione rispetto alle scelte becere, disumane, inefficaci dei Porti Chiusi, dei confini spinati, del “tutti a casa loro”.

Volere bene agli italiani significa insegnare loro che per essere cittadini oggi bisogna imparare a essere cittadini del mondo. Volere bene agli italiani significa far scoprire il valore della eguaglianza di rispetto, della fratellanza, dello sguardo amichevole. L’unico modo per stare bene e sentirsi sicuri.

Livia Turco

Da Huffington Post

 

Dov’è Soumalaya Sacho?

30 Giugno, 2018 (11:31) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Dov’è Soumalaya  Sacho? E’ tornato nel suo paese il Mail, accolto dall ‘affetto e dal dolore straziante  dei suoi famigliari. Dopo aver ricevuto nel nostro  Paese il saluto  degli sfruttati  come lui. Poche sono state le  dichiarazioni della politica. Quella Del Presidente della Camera.  Nessuna parola da parte di chi ci governa impegnato al contrario a spargere messaggi contro gli immigrarti e ad  irridere alle  loro condizioni di vita. Anche la sinistra è stata silente.

Solo gli sfruttati come lui hanno raccolto la sua eredità e ci hanno trasmesso parole  ricolme di dignità. Abourbakar  Soumahoro, l’amico sindacalista,  ha dato una scossa ai suoi concittadini , ha dato volto e voce alla loro rabbia, a loro che lavorano sotto un sole cocente per tutto il giorno da sole a sole, per due euro all’ora. Li abbiamo visti sfilare sabato scorso a  Roma , li vedremo a Reggio Calabria il 23 giugno prossimo. Una luce, una speranza in queste tenebre che avvolgono la nostra democrazia e la nostra convivenza. Soumalya  Sacho deve continuare a vivere in mezzo a noi.

Abbiamo bisogno  di vedere il  suo volto , noi italiani, per ritrovare noi stessi, la nostra dignità di popolo, la nostra etica pubblica di paese solidale, la nostra radice di popolo di emigranti.  Il volto di  Sacho per ricordarci quello  dei nostri connazionali morti a Marcinelle, quelli morti sui barconi che salpavano gli oceani per andare nelle Americhe.

Abbiamo bisogno del volto di Sacho in mezzo a noi, noi sinistra, per rimetterci in viaggio , per ritrovare l’orgoglio  dei nostri valori e delle tante battaglie compiute in passato. Come  quando  a Villa Literno in provincia di Caserta  nel 1989 fu assassinato  un senegalese sfruttato, con regolare permesso di soggiorno che raccoglieva pomodori e che aveva anche lui un grande senso della sua dignità ed un profondo rispetto per il Paese in cui viveva e che lo accoglieva:  Jerrj  Maslo.

La sua morte provocò una reazione forte . Ho negli occhi e nel cuore  quella oceanica manifestazione e la richiesta delle associazioni e dei sindacati, dei  partiti di sinistra  di costruire  finalmente una svolta sulla politica dell’immigrazione.

Un Ministro  intelligente, Claudio Martelli, raccolse quella intelligenza diffusa,  quel sentimento di lotta e di indignazione e diede vita ad alla prima legge attraverso una grande Conferenza sull’immigrazione.  Abbiamo bisogno che il volto di Sacho viva tra gli italiani , diventi famigliare agli italiani  per  sollecitarli a porsi delle domande , per ragionare pacatamente. Perché Sacho che aveva un regolare permesso di soggiorno viveva in condizioni così disumane e così sfruttate’? Perché nonostante una buona recente legge contro il caporalato non si riesce a sradicare questo male del nostro Paese?  Sacho non ci rubava il lavoro, faceva quello che gli italiani non vogliono fare, non ci rubava l’alloggio popolare , l’assistenza sociale. Era un lavoratore  senza diritti che si batteva per avere diritti.

Come capita a tanti italiani, soprattutto giovani. Siamo noi popolo di Sinistra che dobbiamo far vivere il volto di Sacho tra noi italiani. Per dire la verità, per infondere il coraggio e la curiosità  verso i  tanti  Sacho che vivono in mezzo a noi. Per sollecitare ciascuno di noi  a costruire un legame umano e sociale con le persone che ci  vivono accanto. Anche quando sono immigrati. Per scoprire l’umanità  dell’immigrato concreto ,  in carne ed ossa che vive  accanto a noi .

Per costruire insieme quartieri più vivibili, città più vivibili attraverso l’incontro, lo scambio umano e culturale, la festa. Mettiamo in gioco l’ umanità di ciascuno, ascoltiamo l’altro, ascoltiamo le storie di ciascuno, costruiamo insieme giustizia e umanità. Affrontiamo finalmente il grande assente dalle politiche pubbliche e dal  dibattito pubblico che è la costruzione della CONVIVENZA. Conoscersi, riconoscersi, superare le distanze, avere e praticare obiettivi comuni per rendere migliore la nostra comunità .Solo così si combatte la paura, solo così si supera la percezione dell’essere invasi e si coglie la fatica ma anche la bellezza di vivere percorsi di vita nuovi, inesplorati.

Come sanno bene tanti italiani che questa fatica e bellezza della convivenza l’hanno scoperta e la praticano da tanto tempo. Non esiste solo il risentimento e la paura. Esiste l’Italia della convivenza anche se è  inascoltata e nascosta. Tocca a noi ,sinistra ,chiamare a raccolta questa “Italia della convivenza”  ascoltare le loro esperienze e proposte per mettere in campo UN’ALTRA  politica dell’immigrazione.

Più umana, più efficace, capace realmente di combattere le paure. Abrogazione della Legge Bossi_Fini.  Lotta alla tratta degli esser i umani ed a tutte le forme di schiavitù .  Una  Politica Europea dell’immigrazione  che si doti di strumenti  istituzionali nuovi ed efficaci.

Livia Turco

Articolo pubblicato su il Manifesto

Il rispetto dello Stato di diritto nell’Unione Europea

30 Maggio, 2018 (12:26) | Articoli pubblicati | Da: admin

L’Unione europea si fonda sul rispetto di alcuni valori fondamentali, quali la democrazia, lo Stato di diritto e i diritti umani. In particolare, lo Stato di diritto implica il rispetto della separazione dei poteri e di conseguenza l’indipendenza della magistratura rispetto al potere esecutivo praticata in tutte le democrazie occidentali. Gli Stati membri dell’Unione si sono impegnati a rispettare e a promuovere tali valori fondamentali, che rappresentano anche una condicio sine qua non per l’adesione di nuovi Stati all’Unione europea. L’Unione europea non sarebbe credibile nell’esigere il rispetto di tali valori da parte di paesi candidati all’adesione, quali ad esempio la Turchia, se non fosse altrettanto esigente nel verificarne il rispetto da parte dei propri Stati membri. Peraltro, il rispetto dello Stato di diritto da parte degli Stati membri dell’Unione è vitale per il progresso dell’integrazione europea. Lo spazio giudiziario interconnesso dell’Unione europea è fondato infatti sul principio della fiducia reciproca e sul riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, principio che sarebbe difficilmente salvaguardato se uno Stato membro non fosse più governato nel rispetto dello Stato di diritto. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione il 13 Settembre scorso, il Presidente Juncker aveva ricordato che il mancato rispetto di una sentenza della Corte europea di Giustizia oppure la messa in causa dell’indipendenza della magistratura nazionale equivale a privare i cittadini dei loro diritti fondamentali. Lo Stato di diritto – aggiungeva Juncker – non è un’opzione ma un obbligo in seno all’Unione europea. Questa dichiarazione del Presidente della Commissione europea faceva seguito all’annuncio, da parte del governo ungherese, di non voler rispettare la sentenza della Corte europea di Giustizia sulla ripartizione dei rifugiati nonché al voto di una legge da parte del Parlamento polacco che avrebbe permesso la revoca ed il pensionamento d’ufficio dei giudici della Corte suprema polacca. I Trattati europei hanno previsto il caso in cui uno Stato membro dell’Unione violi i valori fondamentali dell’Unione europea. Se questo avvenisse, il Consiglio europeo deliberando all’unanimità (senza il voto dello Stato oggetto della procedura) potrebbe costatare - sulla base di una proposta della Commissione o di un terzo degli Stati membri - l’esistenza di una violazione grave e persistente dei valori fondamentali e decidere di sospendere alcuni diritti dello Stato in questione, fra i quali il diritto di voto in seno al Consiglio. Appare evidente come tale procedura sia di difficile applicazione, poiché nel caso in cui una violazione dei valori fondamentali fosse commessa da due Stati membri, il veto di un solo Stato membro sarebbe sufficiente per impedire l’applicazione di una sanzione nei confronti dell’altro Stato. Il progetto di Trattato Spinelli del 1984 aveva attribuito alla Corte europea di Giustizia la competenza di certificare la violazione dello Stato di diritto, proprio per evitare un giudizio politico unanime del Consiglio europeo. Anche per la difficoltà di applicare tale procedura, la Commissione europea ha lungamente esitato prima di avviare la procedura sanzionatoria prevista dal Trattato nei riguardi degli Stati che, come la Polonia e l’Ungheria, hanno adottato leggi che mettono in causa l’indipendenza della magistratura nei riguardi del potere esecutivo oppure la libertà di stampa. Quando tuttavia il governo ed il Parlamento polacco hanno avviato nel 2015 un processo di controllo o di eliminazione progressiva di ogni fonte potenziale di opposizione, violando la stessa Costituzione polacca, la Commissione europea ha indirizzato tre avvertimenti successivi, sotto forma di raccomandazioni, al governo polacco. In questi atti formali, la Commissione europea aveva chiesto inizialmente l’esecuzione integrale da parte delle autorità polacche delle decisioni del tribunale costituzionale polacco che il governo aveva rifiutato di pubblicare. Successivamente, la Commissione aveva chiesto alle autorità polacche di non nominare il nuovo Presidente del tribunale costituzionale secondo una procedura non prevista dalla Costituzione. In assenza di una qualunque risposta da parte del governo polacco, la Commissione, invece di avviare la procedura sanzionatoria prevista dal Trattato, ha indirizzato alla Polonia una terza raccomandazione in cui criticava l’adozione di nuove leggi che permettevano al governo di dimettere tutti i giudici della Corte suprema e di controllare l’intero sistema di nomina dei giudici. Secondo la Commissione, l’entrata in vigore delle nuove leggi avrebbe compromesso l’indipendenza della magistratura in Polonia. Il governo polacco non solo si è ben guardato dal dare seguito alle richieste della Commissione ma ha anche messo in dubbio la competenza della Commissione per controllare il rispetto dello Stato di diritto in uno Stato membro. In un comunicato pubblico, il governo polacco ha affermato che la Commissione avrebbe disatteso i principi di obiettività, di rispetto della sovranità e dell’identità nazionale e avrebbe commesso un’ingerenza negli affari interni della Polonia. Tuttavia il governo polacco si è ben guardato dall’adire la Corte europea di Giustizia per far valere l’incompetenza della Commissione europea. Tale ricorso sarebbe stato probabilmente giudicato infondato poiché, se la Commissione dispone della competenza di avviare la procedura prevista dal Trattato (art. 7 TUE) per sanzionare la violazione dei valori fondamentali dell’Unione, in che modo essa potrebbe motivare l’avvio della procedura se non avesse il potere di sorvegliare il rispetto degli stessi valori da parte di uno Stato membro ? Senza addentrarci in un’analisi giuridica, il rispetto dello Stato di diritto è una necessità funzionale, a vari titoli, dell’Unione europea. Da un lato, tale rispetto influisce sulla legittimità del processo decisionale dell’Unione dato il ruolo che spetta agli Stati membri in seno al Consiglio europeo ed al Consiglio dell’Unione. Dall’altro, lo spazio giuridico europeo è uno spazio transnazionale, dove gli atti pubblici di uno Stato membro sono suscettibili di produrre degli effetti giuridici in altri Stati membri (per esempio, decisioni dei tribunali nazionali di ricorrere alla Corte europea di Giustizia, mandato di arresto europeo, ecc…). Come già ricordato, la fiducia reciproca tra gli Stati membri sarebbe compromessa se gli standards democratici non fossero più rispettati in uno Stato membro. La Corte europea di Giustizia deve poter contare sull’indipendenza dei tribunali nazionali nel quadro della procedura di ricorso pregiudiziale prevista dai Trattati. Se analizziamo il problema dal punto di vista politico, dobbiamo riconoscere che gli Stati dell’Est europeo dispongono di un sistema democratico debole, sia perché hanno avuto prevalentemente nella loro storia regimi autoritari – quelli che lo storico ungherese Jeno Szucs riassumeva nella sua opera “Le tre Europe” sotto la definizione di “dispotismo orientale” - sia perché la loro democrazia recente è condizionata dal problema della sicurezza (verso la Russia) e dalla questione migratoria (vista come difesa della loro identità culturale e religiosa). Pertanto, in mancanza di una reale sicurezza garantita da un governo federale europeo, questi Stati pensano di risolvere il problema con l’accentramento del potere nazionale e la limitazione delle libertà fondamentali (come fecero molti Stati europei negli anni ‘20/’30 del secolo scorso). Questo spiega anche perché la Polonia e l’Ungheria fanno riferimento alla nozione di “identità nazionale” - garantita dall’art. 4 del Trattato di Lisbona – per opporsi a quella che essi considerano come un’ingerenza della Commissione europea nella valutazione delle loro riforme del sistema costituzionale.

Questa concezione della democrazia nazionale è stata contestata dal Presidente Macron nel suo recente discorso di Strasburgo al Parlamento europeo quando ha opposto l’autorità della democrazia alla democrazia autoritaria. Macron aveva già contestato l’inazione dell’Unione europea quando aveva affermato il 27 Aprile 2017 che non era possibile avere un’Europa “che discuta sui decimali dei bilanci di ogni paese dell’Unione e che decida di non fare nulla quando uno Stato membro si comporti come la Polonia o l’Ungheria su temi relativi ai rifugiati o ai valori fondamentali” della stessa Unione europea. Questa critica diretta del comportamento dei governi polacco e ungherese ha certamente incoraggiato la Commissione europea ad avviare la procedura sanzionatoria del Trattato nei confronti della Polonia per violazione dei valori fondamentali dell’Unione (come anche il Presidente Juncker ad annunciare nel suo discorso del Settembre scorso sullo stato dell’Unione che la Commissione prenderà un’iniziativa prima della fine del 2018 per assicurare il rispetto dello Stato di diritto in seno all’Unione). Un’iniziativa legislativa generale da parte della Commissione europea dovrebbe eliminare il sospetto che le Istituzioni europee concentrino la loro critica sul governo polacco poiché il partito al potere in Polonia è membro del gruppo dei conservatori in seno al Parlamento europeo (che sarà decimato alle prossime elezioni europee in seguito all’uscita dal PE dei conservatori britannici) mentre il partito al governo in Ungheria è membro del partito popolare europeo e contribuisce a rafforzare la maggioranza relativa di cui dispone il PPE. Allo stesso modo, la Commissione europea ha dimostrato la sua volontà di operare a favore del rispetto dei valori fondamentali dell’Unione da parte di tutti gli Stati membri quando ha proposto formalmente il 2 Maggio scorso di introdurre un meccanismo che permetta di proteggere il bilancio dell’Unione europea nel caso di violazioni generalizzate dello Stato di diritto in uno o più Stati membri. Tale meccanismo, se venisse approvato dal Consiglio al momento dell’adozione del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2020-2027, permetterebbe alla Commissione europea di sospendere o addirittura di annullare i pagamenti previsti dai Fondi europei agli Stati membri che non applicassero la regola dello Stato di diritto (salvo decisione contraria del Consiglio presa a maggioranza qualificata). Questa concezione alquanto mercantile dello Stato di diritto (è come se l’Unione dicesse ai suoi Stati membri : “dovete rispettare lo Stato di diritto ma nel caso doveste violarlo è sufficiente il pagamento di una sanzione pecuniaria”) permetterà comunque di aggirare la regola dell’unanimità necessaria per sanzionare la Polonia o l’Ungheria e penalizzerà finanziariamente gli Stati che vogliono continuare a violare i valori fondamentali dell’Unione. L’avvio parallelo da parte della Commissione europea della procedura sanzionatoria dell’art. 7 del Trattato di Lisbona ha già prodotto degli effetti indiretti che confermano l’interconnessione dei sistemi giuridici degli Stati membri e la necessità funzionale del ripristino dello Stato di diritto in tutti i paesi dell’Unione : 1) La decisione del Consiglio sul mandato d’arresto europeo prevede già che, nel caso di attivazione dell’art. 7 del Trattato, uno Stato membro possa rifiutare di riconoscere delle misure nazionali nel campo penale. Pertanto un giudice dell’Alta Corte irlandese ha rifiutato recentemente l’estradizione di un cittadino polacco dall’Irlanda verso la Polonia motivando tale decisione con l’argomento che i cambiamenti recenti della legislazione polacca hanno alterato il rispetto dello Stato di diritto e potrebbero compromettere un giudizio equo della persona di cui è stata richiesta l’estradizione; 2) le disposizioni europee in vigore prevedono che l’attivazione dell’art. 7 del Trattato faccia cadere la presunzione secondo cui il paese oggetto di una procedura sanzionatoria possa ancora essere considerato come un paese “sicuro” ai fini del riconoscimento del diritto di asilo. Detto altrimenti, il diritto di asilo potrebbe essere riconosciuto ad un cittadino polacco che ne facesse domanda e che potesse dimostrare di averne diritto. 3) La Corte europea di Giustizia ha reso recentemente una sentenza nella quale afferma che, nella misura in cui l’applicazione del diritto europeo ed il controllo giurisdizionale sono di competenza sia della Corte stessa che dei tribunali nazionali, il principio generale della protezione giurisdizionale effettiva, in quanto elemento essenziale dello Stato di diritto, è obbligatorio anche per gli Stati membri. Questo principio implica che il rispetto dell’obbligo di assicurare una protezione giurisdizionale effettiva include l’esigenza di rispettare l’indipendenza dei giudici nazionali. Pertanto la possibilità di avere accesso ad un tribunale “indipendente” è un’esigenza legata al diritto fondamentale dei cittadini europei di disporre di un “ricorso giudiziario effettivo”.

L’insieme di questi elementi e sentenze recenti conferma che il rispetto dello Stato di diritto e l’esistenza di una magistratura indipendente non solo fanno parte dei valori fondamentali dell’Unione europea ma costituiscono anche una necessità funzionale affinché sia preservata la fiducia reciproca tra gli Stati membri ed assicurato il riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nazionali.

Paolo Ponzano (Docente di governance europea al Collegio europeo di Parma).

Livia Turco a Teggiano con gli studenti

25 Febbraio, 2018 (10:36) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Dei concetti di dignità e cambiamento ha riecheggiato ieri pomeriggio l’Aula Magna dell’Istituto di Istruzione Superiore “Pomponio Leto” di Teggiano che, in occasione della Settimana della Filosofia, ha ospitato Livia Turco, presidente della Fondazione Nilde Iotti e ministro della Repubblica per due volte negli anni scorsi. La politica piemontese, che iniziò il suo percorso tra le fila del Partito Comunista, ha tenuto una lectio magistralis su una tematica forte e particolarmente sentita, quella della violenza sulle donne. Proprio lei che per anni si è battuta per i diritti delle donne, per il riconoscimento del valore insito nella differenza di genere e per il rispetto di vari aspetti del mondo femminile, tra cui la maternità. Presenti, tra gli altri, i docenti del Dipartimento di Filosofia dell’Istituto, il Maresciallo Francesco Pennisi, Comandante della locale Stazione dei Carabinieri, e il Maresciallo Rocco Santomartino. 

L’incontro si è aperto con una parentesi musicale affidata alla giovane violinista Erika Pinto che, accompagnata da Giuseppe Romano all’arpa, ha fatto ascoltare alla speciale ospite e ai numerosi presenti una versione rivisitata del brano “Donne” di Zucchero Fornaciari, seguito da “Halleluja” di Leonard Cohen. Ad introdurre il prestigioso ospite il Dirigente Scolastico Rocco Colombo che ha definito l’ex ministro della Salute e per la Solidarietà sociale “una sorella nobile della nostra democrazia“.

“La mia esperienza politica è stata di grande passione e di costruzione del rapporto con le donne – ha esordito Livia Turco – Il tema della violenza sulle donne è molto duro perché tocca il caposaldo della dignità personale, mette in gioco la differenza sessuale e di genere tra uomini e donne. Per le donne è importante riuscire a valorizzare la differenza di cui si è portatrici, cimentandosi con una differenza di pensiero. Il punto di fondo è che nella storia questa differenza sessuale è stata costruita attraverso una differenza di genere in cui quello maschile ha una concezione proprietaria della donna e del corpo femminile“.

Un intervento appassionato e particolarmente incisivo quello della Turco, che ha spaziato dalla Costituzione e le 21 Madri Costituenti al Diritto di famiglia del 1975, passando per la conquista del diritto al voto attraverso battaglie dal sapore di dignità e di desiderio di trasformare i tempi fino ai giorni nostri, in cui la violenza e il sopruso troppo spesso diventano sgradevoli protagonisti di drammatiche vicende personali. “Per vincere la battaglia della violenza bisogna costruire una nuova amicizia, – ha sottolineato Livia Turco – gli uomini costruiscano una nuova identità. Uomini e donne, insieme, devono dar vita a relazioni incentrate sul rispetto, bisogna scrivere una nuova grammatica dei sentimenti“.

Chiara Di Miele

Leggi anche l’articolo su Noi Donne 

Un figlio mai nato. Una questione aperta

19 Febbraio, 2018 (14:47) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Per un’Italia ed un’Europa delle convivenza

9 Febbraio, 2018 (09:41) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

L’ Europa   è   investita  da una sfida grande ed  urgente :  costruire  la società della convivenza  che realizzi il motto dell’Unione Europea dell’unità nella diversità. Ridare  senso al nostro vivere civile per combattere il nichilismo della morte che coinvolge molti giovani di seconda generazione ,figli di immigrati  nati e cresciuti nel nostro continente che si affidano al terrorismo dell’Isis .

Costruire  una società umana che  combatta l’esclusione sociale  e promuova la cittadinanza come “ amicizia civica” e comunità di destini.

Costruire convivenza e sicurezza all’interno della pluralità. Sfide difficili eppure cruciali per un efficace governo dell’immigrazione. Se si vuole combattere la paura e costruire un sentimento di sicurezza è da qui che bisogna partire. Il governo efficace dell’immigrazione è misurabile dalla qualità della convivenza tra europei ed immigrati che si realizza nei singoli paesi dell’Unione. Questione cruciale eppure quasi assente dal dibattito pubblico.

Questione cruciale perché oggi il  compito è quello di definire un nuovo modello, un nuovo progetto di convivenza di fronte alla constatazione che le storiche forme di integrazione, assimilazionismo e multiculturalismo, con le loro varianti nazionali, dimostrano la loro crisi ed insufficienza. Quali i tratti distintivi di ciascun modello nella loro realizzazione concreta? Quali le insufficienze e criticità? Quali gli elementi positivi da raccogliere? Quali i tratti di un nuovo progetto di Convivenza? Come si costruisce tale progetto? Sono le questioni che dovrebbero animare in modo rigoroso ed informato  un dibattito pubblico che coinvolga i cittadini, le forze culturali, sociali e politiche. Si possono individuare quattro fasi delle politiche d’immigrazione a livello europeo.

1)L’avvio informale delle migrazioni secondo le esigenze e la storia di ciascuna nazione.  L‘immigrazione è fortemente connessa con la storia nazionale. L’avvio delle politiche dell’immigrazione esalta le peculiarità nazionali e vede il formarsi dei singoli modelli d’integrazione.

2)La crisi petrolifera del 1970 induce i paesi del Nord Europa, che avevano scelto fin dalla formazione dello stato nazionale politiche di reclutamento di immigrati, a praticare il blocco di nuovi ingressi di migranti. Nascono nuove rotte dei flussi migratori che riguardano i paesi del Sud Europa.

3) Gli anni 80-90 sono quelli  in cui i le singole nazioni puntano a ridurre gli ingressi  e si concentrano  sulle politiche d’integrazione.

4) Negli anni 2000 avviene quella che viene definita “la svolta assimilazionista”  in cui siamo tuttora immersi.

In cosa consiste tale svolta? Tutti i paesi europei sono attraversati da una dura crisi economica che accentua  l’ostilità della popolazione autoctona  verso gli immigrati. Al contempo il deficit demografico comporta il bisogno di immigrazione. Emerge in primo  piano la necessità di massimizzare il “rendimento” delle migrazioni in termini sia di integrazione sociale che economica. Le politiche di cittadinanza e di integrazione  come l’apprendimento della lingua , delle regole e della cultura del paese ospitante, i ricongiungimenti famigliari -che dovrebbero avere come obiettivo l’inclusione sociale e culturale della persona immigrata -  vengono invece  utilizzate come misure di selezione per l’ingresso delle persone.

Da opportunità di inclusione sociale a vincoli e criteri di selezione per l’ingresso. L’alfiere di questa svolta assimilazionista è il paese emblema del multiculturalismo, vale a dire l’Olanda. Negli anni 90 l’Olanda è considerata uno degli esempi più riusciti di multiculturalismo. Gli immigrati provengono da paesi come la Turchia, il Marocco, le Antille, cui si aggiungono i rifugiati provenienti da Iraq, Somalia, Afganistan.

Gli immigrati corrispondono ad una necessità del mercato del lavoro ma anche ad un progetto culturale che considera la valorizzazione delle diversità culturali come una risorsa per il paese. I governi socialdemocratici che si succedono promuovono nel tempo eccellenti  politiche educative che prevedono per tutti gli alunni l’educazione interculturale, promuovono politiche che facilitano la naturalizzazione, la partecipazione politica con il diritto di voto amministrativo, un welfare generoso. Il punto che diventerà problematico con il passare del tempo è la modalità con cui viene gestita la” diversità culturale”.

La modalità è quella   della tutela delle minoranze, coerente con un sistema di welfare fondata su distinti pilastri ossia una organizzazione di cittadini che riflette una organizzazione verticale fra distinte religioni ed ideologie politiche, ciascuna con proprie istituzioni. La pratica della diversità si basa sul principio di tolleranza, sullo stare uno accanto all’altro , tribù separate che non  fanno la fatica di” conoscersi e riconoscersi” , di definire insieme “un orizzonte condiviso di valori.”

Il multiculturalismo in Olanda si basava sull’idea che le minoranze culturali devono essere protette e preservate e le loro identità culturali considerate  immodificabili.

Appunto, tribù  separate, che stanno l’una accanto all’altro senza  darsi disturbo. Questa pratica del pluralismo in realtà con il passare del tempo non produce convivenza ma cova conflitti.  Ad un certo punto, gli stessi intellettuali socialdemocratici nel corso degli anni novanta si rendono conto che la loro concezione e pratica del multiculturalismo  ha prodotto  un mosaico di culture e religioni che non comunicano tra di loro e che cancella la storia nazionale.

Sentono il dovere di reagire per recuperare la storia e l’identità nazionale preoccupati in modo particolare della predominanza  che può rivestire la religione mussulmana. Nasce il Partito populista  di Pim Fortuny che verrà assassinato e con lui nel 2004 Theo Van Gogh per mano di un immigrato di seconda generazione. Si afferma una coalizione di Centrodestra proprio assumendo come centrale il tema dell’immigrazione e proponendo una radicale svolta culturale. Si passa dalla concezione e pratica del   pluralismo culturale come risorsa a problema e minaccia.

Nel 2007 entra in vigore la legge sul Nuovo Stile di Integrazione che rifletteva una marcata accezione culturalista della cittadinanza. Le politiche di integrazione sono finalizzate  a misurare “l’integrabilità” delle persone al fine della ammissione e dell’ingresso. La conoscenza della lingua e della cultura olandese, delle sue regole  è richiesta dal governo olandese -agli immigrati non occidentali -come prerequisito per rivolgere domanda di ingresso in territorio olandese. I  costi della formazione culturale è gestita con risorse private e riguarda anche le donne ed i figli che rivolgono domanda di ricongiungimento familiare.  Dal 2010  i Paesi Bassi hanno abbandonato il loro tradizionale impegno per garantire uguali opportunità alle persone migranti. L’integrazione è considerata una responsabilità ed un costo  privati  che ricadono sui singoli  cittadini e sulle organizzazioni della società civile  e non è  più oggetto di politiche pubbliche.

A questo si accompagna una rivisitazione della legge sulla  cittadinanza che abbandona lo ius soli e prevede un sistema misto basato su ius sanguinis e ius soli. Permane come efficace istituzione di integrazione e convivenza il sistema educativo che offre pari opportunità a tutti gli alunni ed alunne, promuove per tutti l’educazione interculturale e favorisce  l’accesso all’università anche ai giovani immigrati.

In questi ultimi anni è aumentata la disoccupazione e l’impoverimento di fasce di lavoratori migranti proprio per effetto di queste politiche selettive e di rinuncia dell’intervento pubblico nella promozione di politiche attive di inclusione. L’Olanda è stata protagonista di una grande svolta restrittiva, da Paese  profondamente multiculturale si è trasformata  nel corso degli anni in una delle nazioni più selettiva. Questa  svolta selettiva è stata adottata da molti paesi europei in particolare governati dal centrodestra ma talvolta  con  il consenso, almeno sull’impianto culturale, anche di partiti socialdemocratici. 

Una variante del multiculturalismo è rappresentato dalla esperienza svedese. I flussi migratori sono una costante della storia di questo paese, cui si aggiungono, a partire dagli anni ‘80 flussi consistenti  di rifugiati e richiedenti asilo raggiungendo  il suo record di presenze nel 2014.Oggi il 15% della popolazione svedese è nata all’estero ed ogni anno 75.000-100.000 persone fanno ingresso in tale paese. La Svezia tradizionalmente è sempre stata caratterizzata da un approccio positivo  nei confronti delle migrazioni , garantendo ai nuovi arrivati gli stessi diritti dei cittadini svedesi e considerando tali flussi come culturalmente ed economicamente arricchenti per il proprio paese, la propria popolazione e società.

La valorizzazione della diversità culturale, a differenza dell’Olanda, si colloca all’interno di un sistema di welfare, di politiche del lavoro e di  un discorso pubblico che punta sull’uguaglianza di dignità delle persone e di opportunità sociali  e crea canali di comunicazione tra immigrati ed autoctoni  attraverso il ruolo delle ong, dei sindacati, della società civile, della scuola,  puntando a costruire mescolanza .Le sue tradizionali politiche si basano su : facilità  nelle naturalizzazioni, pari opportunità nell’accesso al welfare, al lavoro, partecipazione politica attraverso il diritto di voto locale, possibilità di costruire partititi, associazioni e partecipazione alla vita dei partiti esistenti.

Nonostante questo impegno storico e questo clima culturale di apertura, negli ultimi anni, anche in quella società sono cresciuti sentimenti di rancore ed ostilità verso gli immigrati e per la prima volta, nel 2010 un partito di estrema destra entra in Parlamento cavalcando il tema anti immigrati. Tali sentimenti di rancore covano soprattutto nelle periferie  delle grandi e medie città dove sono concentrati immigrati mussulmani. Un deficit delle  politiche svedesi è quello di aver posto scarsa attenzione alla integrazione religiosa.

Il mutamento di clima culturale ha  portato i governi nel 2015 -2016 a varare misure più  restrittive in materia di diritto d’asilo , ricongiungimenti famigliari, maggiori controlli alle frontiere. Ma è rimasto inalterato l’impianto del discorso culturale , delle politiche, delle risorse destinate alla integrazione . Meritano una particolare sottolineatura le politiche di accoglienza dei rifugiati che hanno dei tratti  simili a quelle adottate dalla Cancelliera Merkel in Germania. A partire da una legislazione in vigore dal 2010 i rifugiati e richiedenti asilo fin dal loro arrivo sono coinvolti in programmi di apprendimento della lingua, di educazione civica, di formazione professionale e di inserimento lavorativo.

Sul piano culturale il limite del Multiculturalismo risiede nella sua concezione statica della  identità culturale. Lo  mette bene in risalto Kenan Malik  ne “ Il multiculturalismo ed i suoi critici “  quando afferma  “ Parte del problema è lo slittamento dall’idea che gli esseri umani siano portatori di una cultura a quella che essi debbano farsi portatori di una “determinata” cultura .Dire che un essere umano non possa vivere al di fuori di una cultura comunque non implica affatto che debba vivere in una “determinata” cultura. Considerare gli esseri umani quali portatori di cultura significa considerarli esseri sociali e quindi capaci di trasformazione. Suggerisce che abbiano le capacità di cambiare, di progredire e di creare un universo morale e forme politiche attraverso il dialogo e la ragione.

Ritenere che gli umani debbano farsi portatori di culture specifiche significa, al contrario, negare questa capacità di cambiare. Suggerisce che ogni essere umano sia così tanto modellato da una particolare cultura che cambiare o indebolire quella cultura sarebbe minare proprio la dignità dell’individuo. La diversità non è importante in sé e per sé ma perché ci consente di evadere dalle nostre gabbie fatte di culture, intavolando dialoghi e dibattiti mettendo alla prova valori, credenze e stili di vita differenti”. Condivido molto questo approccio e queste considerazioni.

Esso peraltro è denso di  conseguenze pratiche, sul piano delle politiche.  L’assimilazionismo ha la sua patria in Francia. Radicato in una precisa concezione di Stato e di Nazione. Lo Stato è  il frutto di un “ contratto” tra la popolazione che vive in un determinato territorio. Nazione è un principio spirituale, un anima, è un identità culturale e nazionale .La Francia fin dal 1800 è una terra di immigrazione per  la debole crescita demografica ed il bisogno di forza lavoro.  All’inizio l’immigrazione  fu transfrontaliera.

Poi negli anni settanta i flussi migratori cominciarono ad arrivare  dalle colonie , dall’Africa, dall’America Latina e dall’Asia. Dal 1870 al 1940 si consolida il concetto di Stato Nazione e di Identità  culturale nazionale. Nel 1889 viene modificato il Codice Napoleonico introducendo i primo Codice della Nazionalità .Chi nasce e cresce in Francia, chi si stabilisce sul suo territorio per lavoro e vi risiede a lungo diventa francese e deve dimenticare la sua cultura d’origine. Gli strumenti principali dell’integrazione  assimilazionista  sono la scuola pubblica, laica, gratuita, e la facilitazione dell’acquisto della cittadinanza francese. La scuola laica deve trasmettere i valori i valori della Nazione e dello Stato Francese nato dalla rivoluzione Francese del 1789. I valori della libertà , uguaglianza, fratellanza, spirito europeista, senso della grandezza francese e dello stato. Non c’è spazio in questa concezione della laicità per l’espressione e l’ascolto delle culture altre che al massimo possono essere coltivate nell’intimo della propria anima e della propria famiglia, possibilmente per essere dimenticate.

Le  condizioni materiali in cui vivono i migranti sono caratterizzate però  da discriminazioni e segregazione. I governi diventano consapevoli di dover  attivare politiche di integrazione. Viene istituito nel 1975 il Segretario di Stato per i Lavoratori Stranieri e viene varata una legge che consente al lavoratori immigrati di essere eletti delegati sindacali , al fine di favorire la cooperazione tra lavoratori. Nel 1981 con la Presidenza socialista di F. Mitterand vengono varate riforme importanti, sollecitate da un forte movimento antirazzista di lavoratori  e giovani stranieri e francesi  per il superamento delle diseguaglianze e delle discriminazioni.  Le più importanti furono la creazione delle ZEP-zone di educazione prioritaria-al fine di ridurre le diseguaglianze nella formazione e nei percorsi educativi; il permesso di soggiorno con validità decennale. In questi anni diventano protagonisti i giovani ed i lavoratori immigrati e la loro bandiera è l’uguaglianza, il superamento delle discriminazioni.

Nel frattempo il fenomeno migratorio diventa sempre più oggetto di scontro politico e nel 1986 il Front National ottiene il 10%  dei voti nelle Municipalità. Nasce nella società un forte sentimento anti immigrati  cui corrisponde un malessere delle seconde generazioni che comincia ad esprimersi pubblicamente ma questa volta per reclamare il riconoscimento della fede islamica e richiedere il riconoscimento della loro diversità culturale.

Nel 1993 con Chirac viene modificato  il Code  Nationale che per la prima volta sopprime l’accesso automatico alla nazionalità di un minore figlio di cittadini di paesi terzi creando uno ius soli temperato. L’arrivo di Nicolas   Sarkozy  riaprì  la questione immigrazione sul piano culturale e su quello legislativo. Ispirandosi all’Olanda vara in Contratto d’Integrazione vincolante per ogni immigrato  che vuole risiedere sul territorio francese. Viene prevista una formazione civica, linguistica, sull’organizzazione dello Stato Francese ed un bilancio delle competenze dell’individuo. La sua stipula avviene all’ingresso del migrante nel territorio francese da  parte dell’Agenzia per  l’Accoglienza degli stranieri mentre la sua applicazione è monitorata dai sindaci e dai prefetti. L’assolvimento del  Contratto d’Integrazione è elemento determinate per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno temporaneo, di accesso alla Carta di soggiorno ed al  permesso di residenza.

Da strumento d’integrazione esso così  diventa strumento di selezione per la permanenza in Francia. A questo si accompagna la pratica dell’immigrazione scelta: sono ammessi  solo lavoratori qualificati, studenti e lavoratori stagionali. Vengono  ristrette le possibilità per ottenere il ricongiungimento famigliare considerato troppo gravoso  sul sistema di welfare. Nel 2005-2006 la rivolta dei giovani nelle periferie   fa emergere tutto  il disagio derivante dalla mancata integrazione. Sarkozy  promette un Piano per  risanare le periferie che non verrà realizzato. Viene invece ulteriormente modificato il Code Nationale relativamente alla cittadinanza che ora è costituita da un mix di jus  soli e jus sanguinis. Negli ultimi anni, durante la Presidenza Hollande  si sono susseguiti attacchi terroristi che hanno messo in primo piano la coesione nazionale con politiche di sicurezza e la bonifica delle  zone del profondo disagio sociale,  in cui sono confinati tanti giovani.

Da segnalare come interessante la consapevolezza dell’allora Governo Hollande di dover rivisitare la politica di integrazione per aggiornare il concetto di assimilazione. Furono costituiti 5 gruppi di lavoro che  nel novembre 2015 pubblicarono un Rapporto di Indirizzo al primo Ministro. Nel preambolo con le parole “ conoscenza e riconoscimento” si esprime la volontà di rifondare la politica  assimilazionista. Promessa di uguaglianza ma discriminazioni di fatto;  laicità come esclusiva acquisizione dell’identità francese e la cancellazione di quella d’origine; scarso  coinvolgimento della società civile nella costruzione dei percorsi  d’integrazione. Son questi i punti critici delle politiche  assimilazioniste.

Un’esperienza peculiare è rappresentata dalla Germania .Da sempre paese interessata ai flussi migratori (oggi gli stranieri sono il 9% della popolazione)  pur essendo caratterizzata da una concezione della nazionalità basata sullo jus sanguinis . Per  una lunga fase la sua politica migratoria è stata connotata  da una concezione funzionalista  sintetizzata nella famosa espressione del “ lavoratore ospite”. L’integrazione era ridotta al minimo : parità salariale; dormitori vicino ai luoghi di lavoro ; ostacolati i ricongiungimenti famigliari; nessun investimento nell’insegnamento della lingua tedesca. “Cercavamo braccia sono arrivate persone” è l’affermazione che segnala la presa di consapevolezza che i lavoratori ospiti in realtà erano diventati una popolazione, una componente strutturale della società tedesca, di cui  essa non poteva fare a meno. A  partire dal 2000  i governi promuovono una svolta culturale e significative riforme legislative. 

La prima e più importante è la riforma della legge sulla cittadinanza per i figli degli immigrati  varata nel  2000  con l’introduzione dello ius soli temperato e nel 2014 la possibilità di acquisire la doppia cittadinanza. La peculiarità  delle politiche tedesche che  tuttora ne conferma l’efficacia  è l’approccio BIDIREZIONALE. L’immigrato è tenuto a rispettare le regole ,a conoscere  la cultura, ad imparare la lingua del paese ospitante ma anche lo Stato ospitante deve conoscere e rispettare la cultura della persona immigrata. “ Va superato il multiculturalismo  perché questo approccio è fondato sul principio del vivere insieme come  entità culturalmente separate  ma  dobbiamo costruire un” nuovo noi”  attraverso il dialogo e la reciproca conoscenza”   ebbe a dire la Cancelliere Merkel nel 2010 e successivamente  in ripetuti incontri.

I protagonisti delle politiche di integrazione  in Germania sono il governo nazionale, i governi regionali, i comuni, le ONG, le imprese, le associazioni incentivando la promozione sul territorio di tutte le occasioni in cui tedeschi   e migranti possano mescolarsi, condividere esperienze, fare cose insieme. Particolarmente rilevante è  il ruolo delle imprese  per l’integrazione economica, sociale e culturale dei migranti e dei rifugiati. Inserimento lavorativo, formazione professionale, apprendimento della lingua, condivisione di esperienze di convivenza sul territorio, forte attenzione ai giovani, promozione del dialogo con l’Islam, politiche di accoglienza e di inserimento attivo dei rifugiati: sono le peculiarità del progetto tedesco .Nel 2006 viene istituita la Conferenza Islamica , un luogo istituzionale di dialogo per promuovere iniziative di reciproca conoscenza e convivialità.  Il Consiglio Superiore dei Mussulmani  ha steso una Carta Islamica con l’obiettivo di promuovere i valori  del paese ospitante tra le comunità mussulmane  e contemporaneamente far conoscere la religione islamica ai tedeschi. Non è previsto il voto locale.  E’ attivo un Comitato Consultivo per le Migrazioni  ed i Consigli dei Migranti nelle Municipalità, forme di partecipazione politica che consentono ai migranti il  diritto di proposta, petizioni, espressione di pareri.

Con l’arrivo dei rifugiati siriani nel 2013 è stata definita una nuova legge sull’integrazione  per favorire l’immediato ingresso nel lavoro dei rifugiati e richiedenti asilo come base dell’inserimento sociale  e con una partecipazione attiva da parte  delle imprese sollecitate dal governo ad assumersi compiti e responsabilità d’integrazione lavorativa, culturale e sociale.   Esiste in Italia un “ Popolo della Convivenza” ed  una” Via Italiana alla Convivenza”. Ma non  sono conosciuti, di loro non si parla. Sono totalmente cancellati dal dibattito pubblico, non esistono per la politica, non esistono per i media. Eppure esistono e rendono questo nostro paese più sicuro ed accogliente prima di tutto per gli italiani. Pensiamo ai nostri anziani ed alle loro badanti. La “ Via italiana alla Convivenza”  si è sedimentata , a partire dagli anni ottanta,  sui territori grazie ad un vivace welfare locale e comunitario. Protagonisti sono stati e sono gli immigrati, i cittadini italiani, i comuni, la Chiesa, le ong, le associazioni, i sindacati, le scuole, i reparti di maternità, le famiglie, gli imprenditori.  Mescolanza, superamento delle discriminazioni, reciproco riconoscimento, inserimento scolastico, lavorativo e culturale, questi sono i suoi tratti peculiari.  Questa Italia della Convivenza non ha mai avuto il sostegno di politiche pubbliche nazionali tranne durante i  Governi dell’Ulivo che con la legge 40/98 ed il Decreto Legislativo 286/98  avevano  previsto un progetto ed un programma di integrazione  che imparava da quanto si era costruito nei territori. Diritti sociali, alla salute all’istruzione, alla casa, al sostegno alla maternità, ai minori. Fondo per le politiche di integrazione, piano triennale per le politiche migratorie.

Molte di quelle norme furono cancellate dal centrodestra poi, per fortuna , ripristinate da  Sentenze della Corte Costituzionale.  Ciò che è grave è la totale assenza  di questo tema  dal   dibattito pubblico e dalla iniziativa del Governo, tranne la lodevole recente iniziativa del Piano nazionale per l’integrazione dei rifugiati e richiedenti asilo. Non è mai stato applicato, dopo i governi dell’Ulivo, l’articolo 3 del DLG286/98  rimasto in vigore nonostante la Bossi Fini,  che prevede la definizione  da parte  del governo, con le parti sociali, le Regioni ed il Parlamento di  un piano triennale delle politiche migratorie contenente l’indicazione dei flussi d’ingresso  e le politiche d’integrazione  ritenute in quel momento  prioritarie. E’ grave che in questa legislatura il tema della riforma della cittadinanza per i minori non sia stata considerata una priorità dai governi  che si sono succeduti , dal PD e dalle altre forze politiche di sinistra. Siamo il paese con la legge sulla cittadinanza  più   pesantemente jus sanguinis di tutta Europa!

Da questo rapido sguardo sui principali paesi europei credo si possa trarre qualche considerazione sul che fare  oggi per il futuro del nostro paese e della nostra Europa .

I modelli di integrazione pur nelle loro diversità hanno realizzato una inclusione  subalterna della persona migrante; gli è stato chiesto doverosamente di accettare il sistema di regole e di valori del paese ospitante ma non si è praticata la reciprocità,  quella” interazione” che pure costituisce l’indirizzo delle politiche dell’Unione Europea in materia di integrazione. Non si è fatta la fatica di passare al setaccio dei valori universali dell’Occidente la cultura delle persone migranti . Per selezionare, cogliere gli elementi positivi e nuovi della cultura dei migranti  stessi al fine di  arricchire il nostro patrimonio di valori, di cultura, di pratica sociale .Si è rimasti all’interno di una unilateralità che non ha consentito di vedere l’altro come persona differente. In tutti i paesi europei  permangono limiti sia nella integrazione culturale che in quella economica e sociale. I migranti, le loro vite, le loro culture non sono  diventati ingredienti delle identità nazionali ed europea.

Perché è accaduto?  Perché è  prevalso in tutti i paesi europei, di fatto, un approccio economico corporativo al tema dell’immigrazione .I  migranti sono rimasti di fatto lavoratori, forza lavoro che deve rimanere rinchiusa nella sua dimensione privata. Non sono stati chiamati a concorrere attivamente alla definizione della comunità, non sono diventati attori della Polis, non sono stati chiamati a praticare lo spazio della dimensione pubblica e non sono stati coinvolti nel dibattito pubblico. Bisogna costruire, attraverso un intenso, diffuso, plurale dibattito pubblico,  un nuovo progetto di convivenza che si incardini proprio su quanto fino ad ora non è stato visto e non è stato praticato : i migranti come nuovi cittadini, soggetti attivi della polis. Un progetto di integrazione politica e sociale  che si basi su una concezione della cittadinanza intesa come “ comunità di destini” e costruisca un “orizzonte condiviso di valori”. Ed allora è necessario coniugare progetto culturale e pratica politica. Se il progetto culturale è la costruzione di un orizzonte condiviso di valori,  in cui i valori dell’occidente passano al setaccio le altre culture , attraverso la conversazione mirata alla comprensione, per  arricchirli  e renderli più inclusivi, allora è necessario attivare una pratica  nella nostra vita individuale, sociale e politica.La pratica del “ conoscersi”, “ riconoscersi”, “ superare le distanze” , non accontentarsi di stare semplicemente l’uno accanto all’altro senza disturbarsi , condividere  i problemi quotidiani e sociali, cercare insieme le soluzioni, costruire alleanze  per risolvere i problemi medesimi e costruire insieme una società più umana per tutti/e. Sono i gesti della vita quotidiana quelli che costruiscono  l’ardua strada della convivenza. La fatica del conoscersi e riconoscersi va condotta nei quartieri, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei servizi pubblici, negli ospedali. Questi gesti della vita quotidiana devono però essere sostenuti, orientati e  promossi da buone politiche pubbliche. Se gli immigrati sono considerati cittadini e vogliamo che siano attivi nella polis bisogna creare le opportunità perché  ciò  avvenga. Rimettendo al centro la giustizia sociale e superando diseguaglianze e discriminazioni  economiche ,  sociali, culturali.  Bisogna creare  occasioni di dibattito pubblico e di partecipazione condivisi . Nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei quartieri. Bisogna promuovere l’educazione interculturale per tutti, come parte integrante del progetto didattico. Le scuole devono coinvolgere attivamente le famiglie per favorire il dialogo interculturale tra gli adulti .Bisogna adottare in modo costante e come politica organica del Paese Il Piano Nazionale per le politiche di Convivenza. I partiti politici devono promuovere la partecipazione attiva dei migranti, offrire opportunità formative, aiutarli a diventare classe dirigente del paese.

Essere luogo di ascolto e conoscenza della storia e della cultura dei paesi dei cittadini migranti. Praticare insomma la interculturalità. Si potrebbero fare alcune cose molto concrete. I Comuni potrebbero attivare i  Tavoli della Convivenza , luoghi di partecipazione alla vita della comunità in cui si discutono i problemi della città coinvolgendo sia le associazioni italiane che le associazioni dei migranti. Si potrebbe attivare con atto legislativo  un  Forum Nazionale  delle Associazioni dei Migranti con il compito di avanzare proposte ed esprimere pareri sugli atti del governo e del Parlamento.  Un Forum che sia interlocutore del Governo, del Parlamento, delle Regioni e dei Comuni. Che valorizzi le competenze dei migranti, ne promuova la partecipazione attiva, accolga il loro punto di vista sugli atti  più importanti del governo del paese. Bisognerebbe  attivare una Scuola di Formazione Politica dei migranti e diffondere in modo capillare, con particolare attenzione alle donne, i programmi della lingua e cultura italiana. L’Associazione dei comuni italiani potrebbe attivare un Forum annuale della Convivenza in cui valorizzare le buone pratiche ed i successi dell’integrazione realizzate nelle diverse comunità locali  che possono essere da esempio per altre comunità  attivando così ” la pedagogia dell’esperienza “ che è molto efficace perché  dà fiducia e sostegno  nell’intraprendere l’innovazione .Bisogna inoltre avere il coraggio di promuovere la battaglia per il diritto- dovere del voto locale.

Coinvolgere i nuovi cittadini nel dovere di rendere più accogliente per tutti la comunità in cui vivono. Esaltando così la loro responsabilità e la loro dignità di cittadini e di persone.  Costruire insomma la cittadinanza come  amicizia civica,  comunità  di destino, in cui l’interrogativo costante è “ per cosa ci mettiamo insieme”? “ Come arriviamo all’accordo?”   Papa Francesco  nel discorso svolto  nel 2016 quando gli è stato conferito il Premio Europeo Carlo Magno ci indica una strada. ”Se  c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci questa è : dialogo.  E’ urgente per noi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere una cultura che  privilegi il dialogo come forma di incontro , portando avanti la ricerca di  consenso  e di accordi ,senza parò separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusione…Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curricula scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nei giovani un modo di  risolver i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare coalizioni non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni  che mettano in evidenza che dietro molti conflitti è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro”.

Livia Turco

da Italiani Europei n.6/2017