Le difficili sfide del governo dell’immigrazione
Quello dell’immigrazione è e sarà un tema cruciale e duro da governare perché richiederà cambiamenti profondi nelle forme della convivenza delle società europee ed obbligherà a ridefinire l’identità europea ed il senso della nazionalità e della cittadinanza. Tema ineludibile, rispetto al quale la cialtroneria e la meschinità del nostro Centrodestra e della Lega di volerlo rimuovere cavalcando le paure legittime delle persone arrecherà dei danni enormi al nostro paese ed alle generazioni future.
Tema ineludibile perché le cause dell’emigrazione restano tutte, anzi si complicano (diseguaglianze, differenziali salariali, crescita economica e dei livelli di istruzione dei paesi più poveri , processi di urbanizzazione diffusi in tutto il mondo, le crisi ambientali con il possibile effetti di esodo di intere popolazioni a causa di desertificazioni o inondazioni di specifiche aree, le dinamiche demografiche). Il flusso piu’ consistente sarà dai paesi dell’Africa Subshariana.
L’esodo che assistiamo in questi giorni con i problemi dell’accoglienza si aggiungono a quelli della integrazione delle popolazioni, soprattutto giovanili che sono parte integrante della società europea. Si rammenti poi il dato dello squilibrio demografico per cui l’Europa sarà sempre più popolazione anziana con un forte deficit di popolazione attiva. Dunque, una classe dirigente che si rispetti deve affrontare di petto ed in tutta la sua complessità il problema immigrazione
Considero una buona proposta l’Agenda europea recentemente presentata dalla Commissione Europea soprattutto perché individua la centralità dell’Africa, perché propone politiche di cooperazione e di patnership con i Paesi del mediterraneo rendendoli protagonisti in modo attivo del governo dell’immigrazione.
Selezionare in loco le persone che hanno diritto d’asilo, promuovere il ritorno nei paesi di origine attraverso incentivi economici di quelli che da noi verrebbero espulsi sono misure importanti che l’Europa deve portare avanti con determinazione . Altrettanto cruciale è il principio della solidarietà nella gestione delle emergenze.
Ma non si puo’ eludere un interrogativo: perché è cosi’ difficile costruire una politica europea dell’immigrazione. Non tutto è spiegabile con la crescita dei populismi ,con gli egoismi nazionali. Ravviso due questioni che attengono alla storia politica e culturale del vecchio continente.
L’immigrazione ha sempre fatto parte della storia dei singoli paesi europei ma in modo molto peculiare, fortemente intrecciato alla peculiare storia nazionale. Non si puo’ parlare di comuni dinamiche europee dell’immigrazione o di una comune storia europea dell’immigrazione.
Queste peculiarità nazionali, questo intreccio nazione immigrazione è alla base della difficoltà a pensare una convenienza comune ed una storia comune, a forme comuni di convivenza tra nativi e migranti. E, dunque a politiche comuni.
L’altro dato, secondo me più impegnativo e duro, è che pur avendo conosciuto i diversi paesi europei modelli diversi di integrazione di cui almeno tre hanno fatto scuola-assimilazionismo francese, neocomunitarismo inglese, multiculturalismo olandese, tutti e tre non hanno mantenuto le promesse di integrazione. Non c’è stata integrazione sociale sostanziale, soprattutto tra i giovani. Il riconoscimento delle differenze si è tradotto in tolleranza delle differenze e o loro sostanziale ghettizzazione.
Dopo l’uccisione di Pim Fortuyin , laeder del neo partito populista Olandese da paese di un giovane olandese di origine mussulmana e gli attentati alla metropolitana di Londra da parte di giovani inglesi di origine mussulmana si è realizzatala svolta assimilazionista in ogni paese . Anzi, la conoscenza della lingua e della cultura del paese ospitante diventa non solo obbligo doveroso per chi arriva ma criterio di selezione per chi deve essere ammesso all’ingresso. La lingua, l’educazione civica da fattore di integrazione e cittadinanza a fattore di esclusione.
Se la parola d’ordine delle politiche europee sull’integrazione è stata “interazione” come processo bidirezionale che deve coinvolgere e cambiare entrambi i soggetti; dialogo con l’altro ed accoglimento della peculiarità della sua cultura, fuori da ogni relativismo etico, nell’ambito dei nostri valori costituzionali ,nei fatti questo non è avvenuto.
Come mai? Come mai in ciascun paese europeo è stato cosi’ non praticato ciò che con toni ed in modi diversi da tutti sostenuto: riconoscere l’altro nella sua identità e cultura?
Perché nell’immaginario collettivo, nel senso comune, nella cultura diffusa, di noi europei - nonostante gli immigrati soprattutto nei paesi di più antica immigrazione siano ormai una popolazione integrata, che accetta regole e valori del paese ospitante - essi restano per noi forza-lavoro, lavoratori ospiti e non cittadini.
Questo in ragione del fatto che da parte delle classi dirigenti di ciascun paese europeo di fatto è prevalso un approccio economico corporativo al tema immigrazione.
I migranti, le loro vite, le loro culture non sono diventati ingredienti delle identità nazionali e della identità europea. Nel corso di tanti anni, tranne rare eccezioni, non sono stati chiamati a costruire la comunità, a concorrere a definire le scelte che la riguardano. Non sono stati incentivati a diventare attori della polis, ad occupare e praticare la scena pubblica.
Sono rimasti confinati nella dimensione economica e privata.
Mi spiego tutto cio’ con il permanere, soprattutto in noi italiani, di una concezione della cittadinanza e della identità italiana, come un fatto omogeneo, connesso al legame di sangue. Nonostante il cosmopolitismo della nostra cultura e gli italiani sparsi nel mondo il sentimento dell’identità nazionale non è diventato capace di praticare la pluralità.
Anche per questo facciamo fatica a sentirci europei.
Ecco, io penso che la difficoltà a costruire una politica europea dell’immigrazione risieda in questa concezione omogenea e nazionalista della cittadinanza e dell’identità nazionale che in modo diverso coinvolge ciascun paese europeo.
Puo’ sembrare paradossale ma per costruire una politica europea dell’immigrazione ,più che dalle frontiere, dall’equa ripartizione dei profughi bisogna partire dalle fondamenta: la cittadinanza europea, l’identità europea, il sentimento europeo.
Non si tratta di inventare nulla ma di sviluppare concretamente il concetto di cittadinanza europea contenuta nel Trattato di Lisbona e nella Carta dei diritti umani fondamentali che contempla il riconoscimento della pluralità di culture dento l’orizzonte dei valori universali della dignita’ umana, libertà, democrazia. Il sentimento della cittadinanza europea apre alla pluralità, indica il motto dell’unità nella diversità. Puo’ far scattare la curiosità umana e culturale verso gli italiani con il trattino, i nuovi italiani, quelli che vivono con noi da anni ma non abbiamo imparato a conoscere, continuiamo a considerarli quelli di cui non possiamo fare a meno perché fanno i lavori che non vogliamo più fare noi o coloro che ci rubano il lavoro.
Una politica europea dell’immigrazione potrà veramente esserci quando in nome dei valori europei considereremo gli immigrati non forza lavoro ma persone, cittadini portatori di una diversità che può arricchire la nostra democrazia ed i nostri valori.
Livia Turco
Il Garantista, 13 giugno 2015
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