Il Blog di Livia Turco

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Ius soli: dopo 16 anni è tempo di approvare la legge

13 Giugno, 2017 (16:40) | Dichiarazioni, Senza categoria | Da: Redazione

“La prima legge di riforma della cittadinanza fu depositata in Parlamento il 1 agosto 2001 (legge Turco-Violante n.1463) ormai ben 16 anni fa. E’ arrivato, dunque, il tempo di approvare il disegno di legge sullo ius soli. Sarebbe un inaudito schiaffo morale se il Parlamento non arrivasse al traguardo di una legge equa, giusta, umana”.

Lo dichiara Livia Turco, ex ministro della Solidarietà sociale che con Violante firmò la prima proposta di riforma della cittadinanza in Italia.

“Riconoscere la cittadinanza ai figli degli immigrati nati e cresciuti in Italia è ormai una necessità - sottolinea Livia Turco - L’esperienza diretta vissuta con questi bambini, ragazze e giovani conferma che strumenti fondamentali della integrazione sono la scuola il sostegno alle famiglie, la socialità dei quartieri, lo sport ma è altrettanto fondamentale sentirsi riconosciuti come italiani anche dalla legge”. “Le norme basate sullo Ius sanguinis sono ormai una anomalia in Europa. Persino la Germania - aggiunge Turco - riconosce la cittadinanza ai figli dei migranti prima dei diciotto anni”.

Infine, “dobbiamo avere molto presente che per prevenire il conflitto delle seconde generazioni che non si sentono riconosciute ed integrate bisogna agire ora, con politiche di vera integrazione che riconoscano i diritti ed insegnino ai bambini ed ai ragazzi l’obbligo dei doveri” conclude. (ANSA).

Tratta: Blessing ne è uscita e lo racconta in un libro

11 Giugno, 2017 (09:03) | Dichiarazioni | Da: Redazione

Blessing Okoedion è una ragazza nigeriana, nel suo Paese ha studiato informatica e qualcuno la convince a venire in Italia per lavorare in un negozio di computer. E’ un inganno e Blessing finirà in mano ai trafficanti che la costringono sulla strada. La storia della sua ribellione ai trafficanti, raccontata nel libro ‘il coraggio della libertà’, scritto dalla stessa Blessing Okoedion insieme a Anna Pozzi, è l’occasione per affrontare un tema doloroso e che “la politica rischia di dimenticare”.

A sostenerlo è Livia Turco, presidente della Fondazione Nilde Iotti che ha organizzato la presentazione del libro alla Camera il 12 giugno alle 16.30. “E’ necessario - spiega l’ex ministro per la Solidarietà sociale - parlare di tratta perché dopo un periodo in cui si è prestata attenzione a questo fenomeno vasto e invasivo ora sembra scomparso dalle priorità della politica”. Al convegno, oltre alla protagonista del libro, parteciperà chi con la sua associazione ‘Slaves No More’ l’ha aiutata a liberarsi dalla schiavitù della strada, suor Eugenia Bonetti. E’, infatti, in una delle case che accolgono ragazze in fuga dagli sfruttatori, gestite dall’associazione, ‘Casa Rut’ a Caserta, che Blessing ha trovato rifugio ed è riuscita a riscattarsi.

Del tema lunedì alla Camera parleranno il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sesa Amici, il sociologo Francesco Carcheidi, il magistrato David Mancini e Delia Murer, componente della Commissione Affari sociali della Camera. “L’Oim - sottolinea Livia Turco - ha denunciato la crescita esponenziale, all’interno dei flussi di persone che arrivano dalla Libia, di donne nigeriane, l’80% delle quali è nelle mani di network criminali organizzatissimi e feroci che le destinano al mercato del sesso. Non si può abbassare lo sguardo di fronte a questa realtà, anzi bisogna agire”. (ANSA).

Sogno una società materna e autorevole

30 Maggio, 2017 (08:03) | Interviste, Senza categoria | Da: Redazione

Per non tornare al buio

3 Maggio, 2017 (20:10) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Sappiamo che c’è un cono d’ombra sull’aborto: che ci impedisce di parlarne apertamente, che lo carica di non detto, che costruisce colpe su paure. Ma quel che il libro di Livia Turco – “Per non tornare al buio. Dialoghi sull’aborto” (ed. Ediesse), presentato in settimana in Parlamento – osa dire, è che il cono d’ombra non nasce lì, ma investe la maternità tutta.

La maternità di oggi infatti, a guardarla in faccia, non ha identità. Lo capiamo perché non riusciamo a parlarne senza toccarne gli estremi: surrogata, negata, santificata, mortificata. La maternità “normale” non sembra avere spazio nella narrazione del terzo millennio.

E Livia Turco lo spiega così: “L’esperienza materna è stata confinata in un cono d’ombra perché costa molta fatica per le donne, perché le parole ad essa dedicate sono prevalentemente “costo”: per le aziende, per le famiglie, per il welfare”. E aggiunge: “Il cono d’ombra ha radici più profonde. Attiene al piano simbolico e alla narrazione culturale”. La maternità senza rinunce della sua generazione non ha avuto infatti il dono di una nuova narrazione: privata di parole nuove che la definissero sia simbolicamente che concretamente, l’esperienza della maternità è rimasta così schiacciata tra ciò che non è più e ciò che non è ancora.

“E’ stato talmente duro liberarsi dallo stereotipo della maternità imposta, è stato talmente doloroso sentirci definire egoiste perché abbiamo preteso la possibilità di scegliere la maternità e anche assumerci il dramma il dolore dell’aborto, che non ci siamo rese conto di quanto siamo state brave a vivere la maternità come gioia interiore, nuova cittadinanza sociale, nuova femminilità, nuova relazione con gli uomini”. Non lo hanno “cantato” come avrebbero potuto, e di quel canto oggi non è rimasto niente.

Le 50 pagine di introduzione che precedono le 150 pagine di interviste a ginecologi, obiettori e non, sul tema dell’aborto, potrebbero essere un libro a sé. Se non fosse che tracciano un perimetro nuovo e coraggioso al tema dell’IVG, l’Interruzione Volontaria di Gravidanza, che dal 1978 in Italia è legale ma difficile, dolorosa e sempre sotto attacco.

E il perimetro è quello di una necessità più grande, un’opportunità preziosa: “La cura delle persone deve diventare un grande obiettivo politico, un orizzonte di vita, un modo di essere delle relazioni pubbliche, un tratto della democrazia”. Iniziando proprio con la più difficile ed esclusiva delle esperienze, quella che oggi non ha un volto né per difendersi né per affermarsi: la scelta di essere madri o di non esserlo.

Per questo l’autrice lancia un invito accorato alle nuove generazioni, che hanno la possibilità di riscrivere, meglio, questa storia. “Care ragazze, cari ragazzi, ora tocca a voi!” scrive infatti nella lettera che apre il libro: “create un’immagine pubblica della maternità che sia bella perché vera. Un’immagine della maternità in cui donne e uomini crescono insieme i figli, in cui le mamme fanno politica, volontariato, pratica sociale, portando con sé i figli e trovando tempo e spazio per loro nei luoghi pubblici, nei luoghi della polis. In cui i papà imparino a prendersi cura dei figli: li rende uomini più maturi e con tanta ricchezza in più nel cuore, perché scoprono sentimenti e dimensioni nuovi della vita.

Create un’immagine pubblica che rappresenti “la potenza della maternità”. Una potenza che dovremmo tutti imparare perché è la potenza del dono, della gratuità, della presa in carica dell’altro. Per questo dovete pretendere dalla politica che si impegni finalmente a costruire una società accogliente nei confronti del figlio che nasce. Sarebbe bello se voi riusciste a realizzare quello che noi non siamo riusciti a fare”.

E, in tutto il libro, risuona forte la raccomandazione: non date niente per scontato! Anche i diritti che oggi abbiamo: possono portarceli via. Parliamo sempre, parliamo di tutto, anche dell’aborto: per non tornare al buio.

Riccarda Zezza

(Sole 24 Ore

Aborto, tra diritti delle donne e dei medici

3 Maggio, 2017 (20:07) | Interviste | Da: Redazione

Corrado Augias riaccende il dibattito intorno all’aborto mettendo a confronto due diritti: quello delle donne, di poter ricorrere a una legge costata anni di battaglie, e quello dei medici, di poter esercitare l’obiezione di coscienza.

Livia Turco, già ministro alla Solidarietà Sociale, si confronta in studio con Maurizio Silvestri, ginecologo di Spoleto che, dopo un primo periodo da obiettore, ha scelto di lottare contro la piaga dell’aborto clandestino, riaffiorata prepotentemente in questi ultimi anni.

Vedi la puntata di “Quante storie” 

Ricordo di Bice Foà Chiaromonte

25 Aprile, 2017 (08:03) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

“È con immenso dolore che annunciamo la morte di Bice Foà Chiaromonte, che all’inizio degli anni ‘70 partecipò alla fondazione del Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti). Donna, ebrea e comunista, così amò definirsi nel titolo della sua autobiografia (riedito recentemente da Harpo 2017). Straordinaria e generosa intellettuale, ha dato un originale e innovativo contributo alla costruzione di una cultura per una scuola di liberi ed eguali. La sua instancabile iniziativa e il suo apporto di idee hanno contribuito a rendere il Cidi un attore fondamentale nella storia della scuola italiana. Ci mancheranno la sua intelligenza, la sua cultura, la sua ironia.”

Con questo comunicato il Cidi ha salutato Bice Chiaromonte, come era nota nel mondo della scuola e dei comunisti italiani. In base al codice di famiglia in vigore fino al 1975, Bice aveva assunto, infatti, il cognome del marito Gerardo Chiaromonte, e, come lei stessa scrive nel suo libro, era stata dimidiata della sua identità, privandola del cognome con il quale era nata: ‘Foà’.  Libro scritto non per vanità della memoria, ma per bucare “bolle di silenzio” riguardanti pezzi  di storia e costruzione del popolo italiano, al quale apparteneva come  frutto di un miscuglio incredibile, fino quasi a dimenticare  la propria  radice ebraica. “Tu vuoi rimuovere la tua ebraicità, vedrai che saranno gli altri a ricordartela” l’ammonisce il fratello Gualtiero, così come hanno fatto le leggi fasciste e una leggera – ma diffusa e perdurante – diffidenza culturale.

Nata a Napoli nel 1930, Bice, apparteneva ad una grande, ramificata, numerosa famiglia ebraica, testimone di una parabola che la vede in prima fila nelle battaglie risorgimentali, nella difesa della Patria durante le due guerre mondiali, colpita e sparpagliata per il mondo dalle leggi razziali, in prima fila nell’antifascismo e nella Resistenza.

Ricorda Bice, nel suo libro, l’arrivo a Napoli, appena liberata, di una brigata ebraica - sulla cui bandiera campeggiava la stella di David - formatasi nell’agosto1944, inquadrata nell’Ottava armata dopo molti rifiuti delle gerarchie inglesi e composta per lo più da ebrei residenti in Palestina. La brigata partecipò alla battaglia di Cassino dove molti furono massacrati e contribuì allo sfondamento verso Bologna.

“Molti di quei sionisti non italiani provenienti da vari paesi del mondo morirono per la libertà e la vita di noi italiani”. Dopo un’infanzia dolce ed un’adolescenza segnata dalle leggi razziali, la giovane Foà decide di iscriversi a ingegneria. Due le donne a richiedere l’iscrizione, l’altra non le piaceva, così cambia e si iscrive ad architettura. Bice vive gli studi di architettura come impegno politico; mentre frequenta il terzo anno, conduce, con altri studenti, un’indagine campione sui Sassi di Matera, per studiare una “modalità di rappresentazione di quel groviglio di stradine, grotte che fungevano da abitazione e non solo”.

All’università, dove entra come indipendente nel Consiglio interfacoltà, scopre il grande valore del dialetto napoletano unitamente al mondo del lavoro con i comunisti. Nel corso della campagna elettorale contro la cosiddetta legge truffa del 1953, mentre era in giro a far tessere per il PCI, decide di rendere concreta la sua partecipazione alla vita del Partito e vi si iscrive. Amendola la rimbrotta “adesso trovalo tu un altro indipendente”.

Non sa nulla, come molti altri, di marxismo, e men che mai di storia del Partito, ma come sosteneva Cacciapuoti (responsabile di organizzazione di Napoli)  ”Voi intanto iscrivetevi, il marxismo viene dopo”.  Partecipa ai Comitati per la Rinascita del Mezzogiorno, un movimento di massa che nella visione di Giorgio Amendola doveva essere capace di trasformare la plebe in popolo.  Nel 1956 sposa il dirigente del Pci Gerardo Chiaromonte (1924-1993), allora funzionario, vice di Giorgio Amendola il quale  considerava lui e Giorgio Napolitano i suoi dioscuri.

Non era facile essere la moglie di un funzionario di partito: pochi soldi e poco il tempo da dedicare alla famiglia, anche con le migliori intenzioni. Bice continua nel suo impegno, ma con la nascita delle due bambine (Franca, nel 1957, e Silvia tre anni dopo) si vede costretta ad interrompere gli studi di architettura, benché per la laurea le manchino solo due esami, consegue allora  la maturità artistica che le permetterà di insegnare disegno tecnico.

Quando Gerardo viene nominato nel 1965 responsabile della Sezione agraria nazionale, la famiglia si trasferisce a Roma, dove Bice insegna negli Istituti per geometri di Palestrina (14 ore settimanali) e di Frascati (altre quattro ore), per poi passare, una volta laureata (1970) , all’insegnamento dell’educazione artistica nelle scuole medie della capitale.

Sempre in ombra, ma mai silente, rispetto a Gerardo Chiaromonte (in seguito direttore de l’Unità e di Rinascita, capogruppo al Senato del Pci, presidente della commissione antimafia), Bice frequenta il mondo intellettuale e tutti i massimi  dirigenti del Partito, ne testimonia nel suo libro che ricostruisce, con gusto, il come eravamo.

“Negli anni sessanta molti insegnanti impegnati, o no, in organizzazioni di partito, erano insoddisfatti di come il Pci affrontava il tema dell’insegnamento “. Insieme a Luciana Franzinetti Pecchioli dà vita, quindi, al  Cidi, che non era una gamba del Pci, ma un organismo autonomo, all’interno del quale Bice esercitava la propria indipendenza.

E’ Giorgio Napolitano il dirigente di partito più  convinto dell’importanza  del Cidi, il cui  obiettivo era   la realizzazione della Costituzione italiana attraverso iniziative democratiche.  ”Per capire, per migliorare e trasformare il nostro mondo, bisogna non solo desiderarlo, ma bisogna sapere… Nel momento in cui diciamo no al nozionismo, diciamo si a una conoscenza e un’informazione che siano collegate alla realtà del mondo di oggi e di domani”, così scrive Luciana Pecchioli.

E’ un’operazione in cui Bice impegna il suo cuore e la sua intelligenza di madre, di insegnante, di militante politica, per arrivare a definire “i contenuti culturali dell’insegnamento, la ricerca e l’acquisizione degli strumenti indispensabili per la formazione critica dei giovani, la rivalutazione del ruolo degli insegnanti, in una scuola di massa qualificata ai più alti livelli”. Una organizzazione piena di donne: lei redige verbali figurati, ossia assai disegnati, qualcuna lavorava a maglia durante le riunioni.

Scrive nella presentazione del Menabò  ”cosa deve essere la scuola? E noi insegnanti?…. una scuola che educa è secondo noi, una scuola  ricca di valori della società moderna”. Tutte impegnate a lasciare un segno. “Se non si lascia il segno che ci si sta a fare nella scuola?”. Bice Foà ci piace ricordarla così, come  donna impegnata nel più ampio processo di costruzione ed evoluzione  di questo Paese che ha caratterizzato l’impegno di molte donne.

Ci piace anche però ricordarne le risate, l’ironia e l’autoironia e il suo amore per la musica, il canto “antico” da Bach alle canzoni napoletane di cui era finissima interprete.


Livia Turco

da l’Unità del 25 aprile