Il Blog di Livia Turco

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Immigrati. La via italiana alla convivenza

16 Novembre, 2011 (13:25) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

di Livia Turco, da Tamtàm democratico del 16 novembre 2011

I 5.000.000 di immigrati e di immigrate che vivono con noi sono parte di noi, sono una popolazione e non solo lavoratori. Sono donne, uomini, giovani che ci aiutano a vivere meglio. C’è un’Italia profonda, che ha cominciato a costruire la mescolanza e la convivenza tra i diversi. Questa Italia resta tuttora nascosta e sconosciuta.  Eppure, questa realtà ha costruito  un peculiare “via italiana alla civile convivenza”.

Nel 1861, al primo censimento dell’Italia unita, erano 200.000 gli italiani all’estero. 100.000 nelle due Americhe, 80.000 in Francia, 20.000 in Germania e Svizzera. Venivano dal Piemonte, dalla Liguria, dal Veneto e dal Sud. Tra il 1876 e il 1973 l’emigrazione coinvolse a vario titolo, tra partiti, rientrati, rimasti qualcosa come 26.000.000 di individui. La lingua italiana si è diffusa sin dall’inizio in tutto il mondo e l’idea dell’Italia e di italianità è cresciuta sin dall’inizio dell’Unità d’Italia fuori dal nostro territorio. I nostri emigrati hanno costruito un’Italia transazionale perché l’hanno diffusa nel mondo ed hanno portato il mondo a casa nostra. Come ci ha ricordato il Presidente Giorgio Napolitano nel suo bellissimo discorso pronunciato alla Camera il 17 marzo scorso, nell’Italia unita c’è anche la diversità, la pluralità, la solidarietà.

Per costruire un’Italia forte e autorevole dobbiamo guardare alle forze in campo, alle energie che possiamo mobilitare e ai talenti da valorizzare. I 5.000.000 di immigrati e di immigrate che vivono con noi sono parte di noi, sono una popolazione e non solo lavoratori. Sono donne, uomini, giovani che ci aiutano a vivere meglio. C’è un’Italia profonda, che ha cominciato a costruire la mescolanza e la convivenza tra i diversi. Questa Italia resta tuttora nascosta e sconosciuta.  Eppure, questa realtà ha costruito  un peculiare “via italiana alla civile convivenza”.

Essa nasce nelle comunità locali alla fine degli anni ’70 quando iniziarono i primi flussi migratori. Si forma attorno ai Comuni, che fanno un gioco di squadra con il volontariato, l’associazionismo, i sindacati, gli imprenditori, le scuole. Ciò che ha favorito la via italiana alla convivenza è stato il felice incontro di alcune peculiarità dell’Italia e di alcune peculiarità dell’immigrazione: la diffusione dell’immigrazione su tutto il territorio, nei piccoli centri anche quelli disabitati; la diffusione secondo le esigenze del nostro mercato del lavoro; la presenza delle donne nelle nostre famiglie che hanno abbattuto stereotipi e che hanno costruito legami; la presenza di una democrazia diffusa dei sindacati, le associazioni, i comuni, le parrocchie che hanno coinvolto gli immigrati e sin dall’inizio hanno accorciato le distanze tra italiani ed immigrati; la scuola che ha formato i nostri ragazzi ma anche le famiglie italiane e straniere facendole incontrare e diventare capaci di parlarsi tra di loro.
La via italiana alla convivenza ha valorizzato il lavoro, i diritti sociali, ha puntato sul superamento delle discriminazioni, ha parlato di diritti-doveri. Di rispetto delle regole e di riconoscimento delle differenze. Ha favorito la mescolanza attraverso i gesti della vita quotidiana, nelle fabbriche attraverso il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e l’amicizia con i lavoratori, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie. Quando sono esplosi i conflitti ha saputo superarli perché l’ente locale si è messo di mezzo, cercando di capire le ragioni degli uni e degli altri, promuovendo un gioco di squadra ed individuando obiettivi comuni. Un impegno che in genere è coinciso con la lotta al degrado urbano e sociale. E con la rinascita del proprio quartiere e della propria città. È questa la storia di città come Torino, Mestre, Milano, Genova.

Fin dall’inizio la via italiana alla convivenza ha puntato sulla partecipazione politica, attraverso le consulte per gli stranieri ed i consiglieri aggiunti. Nel 1996, con il primo governo dell’Ulivo, ha incontrato finalmente la politica che con la legge 40/1996 l’ha sostenuta e valorizzata attraverso indirizzi e risorse. Legge poi del tutto abbandonata e stravolta dalle nuove normative del centro-destra. La via italiana alla convivenza civile è sociale, comunitaria, della mescolanza e dell’integrazione politica.
Ci dice che la nuova unità d’Italia è l’unità nella diversità.

Oggi la questione del rapporto tra immigrati ed italiani non è più solo quella dei diritti e dei doveri ma di quale Italia costruire insieme, di un nuovo progetto Italia da condividere. Per questo bisogna proporre una alleanza tra italiani ed immigrati per un’Italia migliore. Un’alleanza per lo sviluppo umano, per la dignità del lavoro, per il welfare delle sicurezze per tutti, per il diritto allo studio e la scuola interculturale per tutti, per una democrazia forte ed inclusiva. Costruire un’alleanza politica, condividere un progetto significa essere riconosciuti come cittadini, e poter aver le sedi in cui esprimersi e contare. Il tema della democrazia e della partecipazione politica è dunque oggi la questione cruciale, è il passaggio politico istituzionale necessario per creare coesione sociale e politica.

Partecipare vuol dire essere riconosciuti ma anche assumersi delle responsabilità, esercitare un dovere nei confronti della propria comunità. Abbiamo bisogno di una democrazia che consenta a chi nasce e cresce in Italia di dirsi italiano e che consenta a chi vive con noi, lavora e paga le tasse di partecipare attivamente alla vita politica. Una democrazia per essere forte deve saper prevenire lacerazioni e conflitti. La democrazia italiana deve cogliere il conflitto potenziale contenuto nel fatto che un elevato numero di giovani che nasce e cresce nel nostro Pese e si sente italiano è privo di identità, e al compimento del 18° anno se non trova un lavoro o se non frequenta con assiduità gli studi universitari diventa clandestino e rischia l’espulsione. Ha solo un anno di tempo per rivolgere domanda di cittadinanza e per poterlo fare deve avere vissuto ininterrottamente per 18 anni nel nostro Paese. Si tratta della legge sulla cittadinanza che a livello europeo è la più ostile nei confronti dei minori.

Consentire a chi nasce in Italia, figlio di immigrati con la carta di soggiorno, di essere riconosciuto cittadino italiano e a chi arriva in Italia di essere italiano dopo aver compiuto un ciclo di studi è una necessità e un dovere della nostra democrazia. È una grande priorità per il PD. Siamo impegnati in una campagna affinché tutti gli italiani si riconoscano nella parola d’ordine: chi nasce e cresce in Italia è italiano. In questo modo si superano i limiti del multiculturalismo.

Recentemente il leader inglese Cameron ha riaperto il dibattito sulla crisi o addirittura il fallimento del multiculturalismo. È vero, il multiculturalismo si dimostra incapace di dirimere i conflitti e di costruire convivenza quando si limita a praticare il principio della tolleranza e il rispetto della pluralità inteso come il semplice stare l’uno accanto all’altro. Quando rinuncia a  fare la fatica di conoscersi, riconoscersi, costruire una relazione reciproca, condividere, anche arricchendoli, i valori e le regole del Paese ospitante. Per costruire l’unità bisogna conoscersi e riconoscersi, condividere le scelte, sedersi allo stesso tavolo, guardarsi in faccia, contribuire a realizzare mete comuni e progetti condivisi.
Il multiculturalismo può esistere solo se si rafforza l’unità nazionale, sul piano sociale ed economico, ma anche sul piano dei valori condivisi, che fondano l’appartenenza alla cittadinanza ed alla identità collettiva. Solo se si rafforza il senso di appartenenza all’identità collettiva diventa possibile riconoscere le differenze culturali. Solo rafforzando le politiche di uguaglianza diventa possibile accettare le differenze. Occorre essere uguali e differenti.

La strada maestra è quella della cittadinanza e della partecipazione politica. L’Italia della convivenza non può continuare a crescere con le sole forze degli enti Locali, del volontariato, delle aziende, delle scuole. Ha bisogno di una buona politica nazionale. Ha bisogno di una nuova legge quadro sull’immigrazione che abroghi la Bossi-Fine e la Berlusconi-Maroni, riparta dalle leggi del centro-sinistra per innovarle.  Ha bisogno di avere finalmente un tavolo attorno a cui siedano governo, regioni, comuni, associazioni per costruire un Piano Nazionale per l’integrazione dotato di strumenti di informazione, monitoraggio, formazione e risorse. Che non sia come il piano “identità, incontro” varato dal governo Berlusconi in cui ci sono tante idee anche condivisibili, ma quando si va al capitolo delle risorse, leggiamo “occorre realizzare un coordinamento  tra le risorse esistenti”.  Coordinamento difficile, dato che le risorse sono inesistenti. Noi proponiamo un piano ed un fondo nazionale che sia cofinanziato dal governo, dalle regioni ed anche da soggetti privati.

Oggi vanno di moda gli innovatori e i rottamatori. Non c’è nulla di più innovativo che imparare la fatica di vivere con chi è diverso da noi e non c’è nulla di più urgente da rottamare dei pregiudizi e della paura. Perché offuscano la vista ed alterano il battito del cuore. L’Italia invece ha bisogno di uno sguardo attento e di un cuore generoso.

Livia Turco

Immigrati. Bene Napolitano ora legge cittadinanza

15 Novembre, 2011 (18:49) | Dichiarazioni | Da: Livia Turco

Dichiarazione Livia Turco, Presidente Forum Immigrazione PD
 
“Ancora una volta sono giunte dal Presidente Napolitano parole sagge di sostegno all’integrazione e ai nuovi fenomeni dell’immigrazione.  Sono soprattutto i giovani a costituire oggi la forza di un processo che potrà garantire futuro al nostro paese. E’ tempo di superare le politiche basate sulla logica securitaria e contenitiva, sul rifiuto e la paura. Le parole del Presidente ribadiscono che l’unica strategia possibile è quella dell’accoglienza: pur rimanendo legati alle loro tradizioni, i nuovi cittadini sottoscrivano un patto con noi, condividano valori e regole, diritti e doveri.  E in questa direzione è necessario ogni sforzo per  arrivare al più presto una nuova legge che garantisca cittadinanza ai molti nati e cresciuti in Italia”.

Il discorso del Presidente Giorgio Napolitano 

Parliamo di Renzi. Nè anatemi né vittimismo

14 Novembre, 2011 (14:12) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

di Livia Turco, (da L’Unità dell’11 novembre 2011)

Con Renzi vorrei discutere: va bene innovare con la Rete, ma basterà? I rottamatori dovrebbero dire come intendono rottamare le diseguaglianze.  Ha ragione Pierluigi Castagnetti quando afferma che il Pd ha bisogno di persone come Matteo Renzi, ma, a differenza sua, non credo proprio esista tra di noi il pensiero recondito secondo cui chi non viene dalla storia della sinistra è candidabile alla leadership del partito. Sono dunque interessata a discutere con Matteo Renzi perché rappresenta quella nuova classe dirigente per la quale faccio il tifo e sulla quale con lungimiranza e generosità ha investito Pierluigi Bersani. Vanno evitati gli anatemi ma pure evitato il vittimismo. Matteo Renzi, nella sua irruenza, accende sentimenti ma ne ferisce e colpisce anche altri, dunque è naturale che ci sia una reazione non solo razionale ma anche “sentimentale” da persone che appartengono al popolo del Pd, com`è avvenuto sabato scorso in piazza San Giovanni.   Io per esempio non solo sono stata ferita dall`espressione «gli schiacciatasti del Parlamento», ma sono stata anche colpita dalla sua assenza all`assemblea dei giovani a Napoli e dal non aver mai potuto ascoltare un suo intervento in direzione o all`assemblea nazionale, dove solitamente ascolto cose utili e importanti.

Con Matteo Renzi mi interessa discutere due cose che mi hanno colpito della sua concezione pratica politica e del suo programma per come si è manifestato, tanto più in riferimento alla sua cultura cattolica. Renzi ha esaltato il linguaggio della Rete e dei Social Network e questo per una analfabeta come me che si sta sforzando di imparare, è uno sprone importante ad adeguarsi e innovare. So che qui c`è una politica importante perché accessibile, coinvolgente, trasparente e veloce.  Ma basta la Rete? Non possiamo non vedere quanto sia tremendamente necessario un pensiero diffuso che si nutra di argomentazione, di studio, di cultura. Dico diffuso perché una delle forme della diseguaglianza, magari invisibile, che pervade il nostro Paese è l`impoverimento culturale e delle relazioni umane.   Contrastare l`impoverimento culturale diffondendo cultura e capacità di argomentazione è compito delle politiche pubbliche, dunque delle istituzioni e anche di un partito, tanto più il Pd che ha nella democrazia un suo tratto costitutivo. E allora come non sentire il dovere di applicare l`articolo 3 della Costituzione, in particolare il secondo comma che dice che compito della Repubblica è contrastare le discriminazioni e le diseguaglianze. Diffondere cultura, promuovere capacità argomentative, promuovere legami sociali e cittadinanza attiva: questo è un compito urgente della politica e delle istituzioni. Allora non basta la Rete, ci vogliono le scuole come quella di Napoli, ci vuole il legame reale con le persone, ci vogliono quei luoghi dove le persone si vedono, si parlano con profondità, fanno delle cose insieme per essere utili al proprio territorio. Luoghi che sono i circoli o altri dove, credo non casualmente andando in giro per l`Italia, ho incontrato tanti giovani e ragazze. Ci vuole una riscoperta della politica come capacità di prendersi cura, come responsabilità verso l`altro.

II prendersi cura, la cura delle relazioni umane non è solo compito del volontariato. Ha ragione Luigi Ciotti quando in ogni assemblea di volontari afferma di sognare il giorno in cui non ci sarà più il volontariato perché saremo tutti volontari, in quanto l`etica del prendersi cura sarà diventata ingrediente dell`agire politico e del modo normale di essere cittadino/cittadina. Dal sindaco di una città come Firenze, da un cattolico mi aspetto non solo la velocità della Rete e l`efficacia dell`apparire televisivo, ma la valorizzazione della fatica delprendersi cura. Anche rilanciando alcune politiche così devastate dall`attuale governo come quella del servizio civile, magariestendendoleai giovani immigrati, questi nuovi italiani così numerosi e capaci, in tanti nel Pd e curiosamente tenuti fuori da tuttii raduni giovanili del Partito democratico che sono stati rigorosamente all`insegna dello Ius sanguinis … tutti rigorosamente “vecchi italiani”… Oppure avendo il coraggio di proporre il servizio civile obbligatorio per parlare in modo concreto dei doveri, per dire che diritto non è solo ciò che è dovuto a ciascuno ma ciò che ciascuno dà agli altri. Ricordo in proposito una importante discussione che ci fu nella riunione del Consiglio dei ministri del governo D`Alema quando venne abrogata la naia e si istituì il servizio civile. L`allora ministro Nino Andreatta parlò di servizio civile obbligatorio. Era troppo audace proporlo allora. Ma oggi?

L’altro aspetto che mi interessa discutere con Renzi è il pensiero della Chiesa, dall`Enciclica del Papa ai materiali delle settimane sociali, sulla crisi economica e sulla dignità del lavoro. Può un giovane che ha l`ambizione di costruire una nuova cultura politica esimersi dal misurarsi con questo nodo durissimo della diseguaglianza o pensa di poterlo fare con un po` più di flessibilità e con una vita lavorativa più lunga? Bisogna ripartire dalle fondamenta, dai grandi beni comuni. Discutere cosa significa società sobria, per mettere in moto lo sviluppo e costruire una vita dignitosa per i giovani. Come ci suggerisce nel sul bel libro “Guasto il mondo” dello studioso americano TonyJudt. In questa fatica bisogna inventare nuove ricette, ma bisogna avere anche saldi fondamenti. Come ci suggerisce il pensiero socialedella Chiesa e come ci hanno insegnato i nostri padri e le nostre madri quando ci hanno detto che il vero discrimine tra destra e sinistra è l`eguaglianza.Oggi che la diseguaglianza è diventata mostruosa, i giovani rottamatori devono dirci come la vogliono rottamare…?

La Chiesa e la cultura di sinistra

6 Ottobre, 2011 (14:04) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

Di seguito l’articolo di Livia Turco pubblicato su L’Unità di oggi.

Credo sia utile tornare sul discorso pronunciato dal cardinale Bagnasco nel corso dell’ultimo consiglio permanente della Conferenza episcopale. L’aspetto che più mi ha colpito della prolusione del presidente della Cei è la cosiddetta “visione antropologica”, la critica all’individualismo ed al radicalismo. «Sarà bene anche affinare l’attitudine a cercare, sotto la scorza dei cambiamenti di breve periodo, le trasformazioni più profonde e durature, consci, tra l’altro, che una certa cultura radicale al pari di una mentalità demolitrice tende ad inquinare ogni ambito di pensiero e di decisione. Muovendo da una concezione individualistica, essa rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale. Per questo, dietro una maschera irridente, riduce l’uomo solo con se stesso e corrode la società, intessuta invece di relazioni interpersonali e legami virtuosi di dedizione e sacrificio».
Tale visione è coniugata a quel “c’è bisogno di purificare l’aria”, il richiamo duro alla questione morale, l’investimento sui giovani indicati come i veri protagonisti della riscossa del nostro Paese. Questa visione antropologica dell’uomo relazionale, della persona che riconosce la sua dipendenza dall’altro e del suo bisogno di comunità, di relazioni umane significative, costituisce il nucleo di una elaborazione che è stata rilanciata in questi ultimi anni dalla Chiesa, è stata al centro dei documenti delle Settimane Sociali. Personalmente lo considero un approccio molto fecondo. Farebbero bene le diverse culture politiche a collocarsi su questo piano della discussione e della sfida.
Che cosa significa questa proposta per la cultura della sinistra? Io credo, mettere in discussione una concezione dei diritti che talvolta si è basata su una visione riduttiva della libertà personale e dell’autodeterminazione. Riduttiva quando non ha saputo cogliere ciò che è di fronte ai nostri occhi e vive nella nostra esperienza: il bisogno dell’altro, il legame di interdipendenza tra le persone come nutrimento della libertà e dell’autonomia individuale.
Bisogna dunque aggiornare la cultura dei diritti collegandola alla responsabilità e alla valorizzazione dei legami umani. Diritto non è solo ciò che aspetta e compete a ciascuna persona in nome del valore universale della dignità umana ma anche ciò che ciascuno è chiamato a dare e fare per gli altri in quanto componente della comunità. Diritto è sentirsi parte di una comunità, è servirla perché questo senso attivo di appartenenza è parte integrante della dignità umana. Ha ragione Francesca Izzo (l’Unità, 3 ottobre) quando afferma che la ridefinizione della cultura dei diritti e della libertà individuale deve basarsi sul riconoscimento della differenza sessuale, della libertà femminile e di quanto è stato pensato dalle donne.
Se questa è l’evoluzione che deve compiere e sta compiendo la cultura della sinistra e del Pd, una domanda va posta alla Chiesa: questa critica all’individualismo e al radicalismo contiene forse un “non detto” secondo cui radicalismo e individualismo sono storicamente e ontologicamente identificabili con la sinistra? Oppure la Chiesa propone una visione dell’uomo e della società che interroga tutte le culture politiche? Per esempio, costituisce una critica alla società consumista ed edonista al relativismo etico che nell’ultimo ventennio è stata propinata dal berlusconismo; o a quella visione della ineluttabilità della diseguaglianza umana e sociale, quel timore della diversità umana che contraddistinguono le culture politiche del centrodestra?
Insomma, la sfida della responsabilità e del bene comune proposta dalla Chiesa è feconda se sollecita un’azione rigeneratrice e una ricerca innovativa in tutte le culture politiche, se costituisce lievito che alimenta tutti ed è a disposizione di tutti e non se, in modo indiretto e tacito, segna campi e confini di appartenenza politica che questa volta scaturirebbero da valutazioni addirittura antropologiche. Come a dire la sinistra è irrimediabilmente individualista e radicale e dunque incompatibile con un umanesimo autenticamente cristiano e quindi luogo improprio per un cattolico. Pongo tale questione perché sono convinta che la sfida della responsabilità e del bene comune, la riproposizione dell’uomo in relazione con l’altro non è solo il ritorno ad una visione tradizionale della Chiesa e della pastorale cattolica. Non è solo la riproposizione di un nucleo antico e permanente del pensiero cattolico ma contiene una lettura dell’esperienza umana che dovrebbe coinvolgere tutti noi. Per questo è importante misurarsi con essa, farsi guidare per capire le domande profonde dell’uomo moderno e per cercare di aggiornare il linguaggio e la cultura della politica.

Livia Turco

Il welfare tansnazionale: prefazione agli atti del convegno

4 Ottobre, 2011 (17:41) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

Anticipiamo la prefazione di Livia Turco al volume in via di pubblicazione che raccoglie gli atti del convegno “Migrazione, Sviluppo e Welfare. La frontiera esterna delle politiche sociali”, svoltosi a Roma il 24 febbraio scorso e promosso dalla Provincia di Roma, il Laboratorio “Atlante” e dal Cespi.

La trasnazionalità è la condizione del migrante che viene da noi e vuole restare legato al suo paese ed alla sua famiglia d’origine per aiutarli e contribuire alla loro crescita economica e sociale.
Da stato di necessità, la transnazionalità  sta diventando un nuovo modo di guardare ai problemi dell’integrazione sociale e dello sviluppo e di progettare le soluzioni.
Un nuovo sguardo, un tratto dell’identità personale, dell’esperienza sociale e delle strategie di sviluppo.
Fino ad ora le politiche di cosviluppo e di valorizzazione della transnazionalità si sono concentrate sulle risorse economiche. Questo volume avanza la proposta di un welfare transnazionale.
A partire da una concezione della sicurezza intesa non solo come sicurezza dei confini attraverso efficaci politiche di collaborazione tra i paesi  per il contrasto dell’immigrazione clandestina ma come promozione del benessere delle persone.
Promuovere politiche sociali transnazionali, basate sulla cooperazione e collaborazione tra qui e là, di istituzioni, associazioni, famiglie, significa promuovere un benessere duraturo.
Le politiche sociali sono quelle che accompagnano le persone e le famiglie abbattono gli ostacoli, combattono le discriminazioni, favoriscono l’integrazione.
Tali politiche sono efficaci quando fanno leva sulla capacità delle persone, valorizzano ed attivano le loro relazioni umane e sociali, favoriscono le costruzioni di reti.
Se la persona è accompagnata fin da quando parte e lascia il suo paese – attraverso l’apprendimento della lingua, la competenza professionale, il bagaglio di informazioni – tanto più si inserirà facilmente nel nuovo paese di arrivo.
Quanto più si integra nella società di destinazione tanto più sarà capace di contribuire allo sviluppo del suo paese d’origine.
Le politiche sociali transnazionali hanno il loro fulcro nell’utilizzo efficace delle risorse in quanto puntano ad attivare tutte le capacità delle persone e dei loro contesti di vita.
Fanno leva sulle relazioni umane, sociali, economiche, istituzionali e puntano a costruire reti di relazione per dare forza alle persone ed utilizzare in modo efficace ed oculato tutte le risorse di cui un territorio dispone.
Le politiche sociali transnazionali sono locali, radicate nei territori,sono partecipate, ma sono sostenute da infrastrutture e reti nazionali.
La cultura della legge quadro 328/2000 “Norme per un sistema integrato di servizi e prestazioni sociali” proprio perché valorizza la partecipazione dei soggetti, promuove l’alleanza ed il gioco di squadra tra professioni, famiglie, istituzioni, punta all’integrazione delle opportunità – sociali, lavorative, scolastiche -, contiene lo sguardo adatto e l’approccio giusto per promuovere il welfare transnazionale, per favorire qui e là le reti di relazioni e per connetterle tra di loro.
Le belle  esperienze raccontate in questo volume testimoniano di quanto sia utile sul piano umano e su quello economico prendere in carico la persona e la famiglia fin dal momento della partenza e mantenere con quale luogo medesimo e con le relazioni in loco un rapporto costante . Questo presuppone la possibilità delle persone di circolare e dunque di promuovere il diritto alla mobilità e anche la portabilità dei diritti
Le politiche sociali transnazionali sono foriere di pensieri nuovi, creano legami umani intensi, arricchiscono le competenze.
Promuovono – qui e là – uno sviluppo umano. Per questo vanno incoraggiate.

Livia Turco
 

A Lampedusa, prima che la crisi degenerasse

4 Ottobre, 2011 (17:18) | Post | Da: Livia Turco

Partii una mattina, nel mese di maggio, per andare a Lampedusa. Decisi una visita informale per vedere con i miei occhi ed ascoltare con le mie orecchie quanto stava accadendo.
Mi sembrava impossibile che l’Italia non riuscisse ad accogliere quel numero di tunisini, che dopo un anno secondo le cifre ufficiali del Ministero, è di 50.000 (compresi i profughi dalla Libia).
All’aeroporto vennero ad attendermi i responsabili del circolo PD di Lampedusa, molto attivo nell’accoglienza e che lavorava con le associazioni ed i gruppi di volontariato sul territorio.
Durante il tragitto in macchina mi aggiornavano di quanto era successo.
I giovani tunisini che erano venuti in Italia come transito verso gli altri paesi europei per cercare lavoro erano ragazzi miti, perbene che chiedevano aiuto alla popolazione.
E la popolazione di Lampedusa gliel’aveva data.
I lampedusani avevano accolto quei giovani come fossero parte della loro famiglia.
Anche perché si vergognavano delle condizioni in cui li aveva abbandonati lo Stato e della totale indifferenza del governo.
Infatti, erano lì da giorni e giorni, rimanevano sul porto, senza essere identificati.
I racconti erano commoventi: i lampedusani offrivano loro cibo, coperte, ma anche sigarette giochi  in comune per allentare la tensione.
Ma con il trascorrere del tempo in entrambe le parti cresceva l’indignazione e il disagio per le condizioni di abbandono in cui erano lasciati.
Lampedusa è un luogo di transito. Il Centro di accoglienza che era diventato una eccellenza in Italia ed Europa funzionava come prima accoglienza ed identificazione ma non di permanenza delle persone. Altrimenti, in breve tempo l’isola sarebbe scoppiata.
Con la macchina attraversai la città e arrivai al Porto. Lungo la strada incontrammo frotte di giovani che camminavano per l’Isola.
Era impressionante vedere questa marea di giovani che camminavano veloci, senza meta, alla ricerca di qualcosa che non sapevano. Mi colpì la velocità del passo, la determinazione negli sguardi ma anche la grande tristezza degli occhi. Camminavano in una terra bellissima, ma attorno ad essa c’era solo il mare. Bellissimo, ma nemico perché quello che volevano quei giovani era attraversarlo ma non sapevano come.
Arrivammo al Porto. Immagini di desolazione umana che non potrò dimenticare e che ho denunciato ripetutamente nell’Aula parlamentare.
In uno spiazzo assolato migliaia di persone stipate, in piedi. Per dormire potevano contare sulle coperte che portavano loro i lampedusani, a partire da Don Stefano, dalla chiesa e dalla Caritas che per tutta la notte camminavano tra quei disperati per dare loro un po’ di conforto e per evitare che si accendesse la scintilla dello scontro.
La presenza dello Stato era visibile in 3 bagni chimici, una tenda della Croce Rossa per le emergenze sanitarie, la presenza (ammirevole) dei poliziotti esposti alla esplosione della rabbia, e poi sacchetti gettati all’ora di pranzo e cena contenente un panino, un po’ di riso ed una bottiglia di acqua minerale.
Visitai il Centro di identificazione, anche esso stipato, ed i centri dia accoglienza dei minori.
I lampedusani si erano davvero sostituiti allo Stato nella gara di solidarietà ma anche per garantire la sicurezza.
All’ora di pranzo raggiunsi la Caritas, Don Stefano, c’era anche Oliviero Forti. Mi raccontarono della solidarietà della gente ma di quanto fosse ormai diventata insostenibile la situazione, come non fosse più possibile tenere stipate migliaia di persone su quello spiazzo. Com’era dura la notte perché per coricarsi e dormire un po’, lo spazio non bastava, c’era bisogno di almeno una coperta, l’aria cominciava a diventare fetida per la puzza.
Potevano scatenarsi conflitti duri. Fino a quando ce l’avrebbe fatta la gente, il volontariato, la chiesa? Bisognava subito identificare e portare via quelle persone.
L’Italia aveva conosciuto emergenze molto più consistenti e maggiori che non 20.000 tunisini ma il governo italiano li ignorava, volutamente, deliberatamente.
Aveva predisposto un piano di accoglienza di ipotetici 50.000 profughi che sarebbero dovuti arrivare dalla Libia, ma non faceva nulla per i tunisini che erano lì, perché erano clandestini e bisognava esibire il pugno di ferro.
Il messaggio di Don Stefano fu chiaro: i lampedusani sono stati meravigliosi, hanno insegnato all’Italia che cos’è l’accoglienza e la dignità umana, ma ora non ce la fanno più. I tunisini che sono sul porto vanno identificati e lasciati raggiungere le loro famiglie, oppure accolti qui da noi su tutto il territorio nazionale.
Nel pomeriggio incontrai altre associazioni di volontariato, e poi andai in comune a salutare il sindaco, i consiglieri comunali e lì assistetti ad una discussione concitata su come proseguire la solidarietà, che però era diventata insostenibile e su come farsi sentire dallo Stato.
Le opinioni tra loro divergevano ed io non ero in grado di dare un contributo se non prendermi l’impegno di riferire in Parlamento quanto avevo visto ed ascoltato, protestare con il governo e proporre delle soluzioni
Così feci. La soluzione che proponemmo, un permesso umanitario temporaneo previsto dalla legge in vigore e sperimentato dal governo D’Alema durante il dramma dei Balcani, aveva funzionato allora, poteva funzionare ora.
Questa volta il governo ha accettato un suggerimento dall’opposizione ed ha applicato ai tunisini il permesso umanitario temporaneo, pur tra mille polemiche e contraddizioni e facendosi anche rimproverare dall’Europa.
Quel pomeriggio mi ha insegnato tante cose soprattutto quanto è dura in determinate circostanze la pratica della solidarietà ma quanto essa sia ineludibile ed insostituibile.
Per garantire la dignità umana.
Livia Turco