Il Blog di Livia Turco

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Categoria: Articoli pubblicati

La vita nei Cie. Una priorità per il Governo Letta

23 Agosto, 2013 (14:01) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

di Livia Turco, da L’Unità del 23 agosto 2013

Il Governo deve intervenire subito sui Centri di identificazione ed esplulsione degli immigrati (CIE), considerando questo problema una priorità della sua agenda. Deve farlo mettendo da parte le posizioni politiche del passato e guardando ai fatti, alla cruda realtà che si squaderna di fronte agli occhi di chi entra in quei luoghi e di chi li conosce bene. Ci sono tre aspetti che rendono grave e per certi versi esplosiva la situazione:

1) Le persone che si trovano nei centri. Si tratta di condizioni umane diverse che rendono difficile la convivenza. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di persone che non dovrebbero trovarsi in quei luoghi che dovrebbero servire solo alla identificazione di chi, clandestino, nega in modo ripetuto l`accertamento delle sue generalità. Invece, grazie alle norme sulle espulsioni della Bossi-Fini e della Berlusconi-Maroni, capitano lì immigrati che da tempo sono in Italia ma che si trovano in una condizione di irregolarità perché hanno perso il lavoro e non lo hanno più trovato e dunque, sempre secondo la Bossi-Fini, non possono rinnovare il permesso di soggiorno. Poi ci sono persone che non sono mai riuscite a regolarizzarsi e altre che, appena approdate nel nostro Paese, non conoscono le regole: si sono affidate agli schiavisti che lucrano sul loro sogno di scappare dalla povertà e dalla guerra e non capiscono perché, anziché la libertà, si trovano confinati in prigioni.
C`è poi il caso dei condannati per reati commessi che, dopo aver scontato la pena in carcere, scoprono di dovere subire le sanzioni accessorie dell`espulsione. Sono nei Cie perché devono essere identificati… Paradossale che chi è stato in carcere debba essere nuovamente identificato e ciò debba avvenire in una struttura diversa dal carcere. I ministri dell`Interno e della Giustizia possono intervenire subito, per via amministrativa, stabilendo che il carcerato - che deve poi essere espulso - venga identificata durante la permanenza in carcere. Realizzando così una riduzione dei costi umani ed economici.

2) La norma che prevede un trattenimento fmo a 18 mesi per coloro che sono entrati in modo irregolare nei Paesi ospitanti ha reso questi luoghi delle vere carceri, senza le regole e i diritti previsti nelle carceri. Questa norma deve essere cancellata subito.

3) La condizione di vita nei Cie, imposta dalla politica adottata della riduzione dei costi sul cibo, l`assistenza sanitaria, la mancanza di figure professionali che potrebbero alleviare il dolore e aiutare la gestione della vita quotidiana. Su questi punti il governo Letta deve intervenire subito, d`intesa con i parlamentari ma anche con quelle associazioni come Lasciateci entrare che svolgono un ruolo prezioso. Per noi del Pd la prospettiva è quella del superamento dei Cie e l`abrogazione della Bossi-Fini. Troppe volte si dimentica il rapporto che intercorre tra i Cie e la normativa sulle espulsioni.
La normativa in vigore prevede il reato di immigrazione clandestina e l`espulsione coatta con immediato accompagnamento alla frontiera con la forza pubblica quale normale sistema di espulsione che si applica a qualunque perso- na priva del permesso di soggiorno e la detenzione carceraria per chi dopo essere stato espulso entra in modo irregolare nel nostro Paese. La legge del centrosinistra, la 40/98, prevedeva invece la sanzione amministrativa con l`intimazione a lasciare il territorio attraverso la concessione del foglio di via, l`accompagnamento coatto alla frontiera era previsto solo nei casi di persone che potevano rappresentare un pericolo per la sicurezza del nostro Paese ed era disposto dal prefetto o dal questore. Dunque, nella legge del centrosinistra chi era irregolare non veniva espulso o rinchiuso nei centri di permanenza temporanea ma subiva una sanzione amministrativa e veniva intimato a lasciare il territorio o a regolarizzarsi.
Il trattenimento nei Centri di Permanenza era previsto solo nei casi di persone che negavano in modo ostinato l`accertamento delle loro generalità ed il trattenimento durava trenta giorni procrastinabile a 60. Ecco perché è molto grave, e diffamatorio ed inaccettabile sul piano del diritto e dei fatti, che si stabilisca una sorta di linea di continuità tra la legge 40/98 e gli attuali Cie come viene proposto da taluni ambienti. L`Italia è diventata un Paese di immigrazione, in cui la popolazione immigrata è stabile e integrata. Per questo è arrivato il tempo di deporre l`ascia delle ideologie, delle contrapposizioni di principio per adottare il criterio della valutazione dell`efficacia delle politiche. Sarà un bel giorno quello in cui tutte le forze le forze politiche e sociali, insieme, scriveranno una nuova legge quadro sull`immigrazione.

Per questo ha fatto bene la ministra Kyenge a parlare di un tavolo di lavoro comune per cominciare ad affrontare il tema. Sarebbe un grande servizio al Paese se il governo Letta facesse un gesto per la dignità del più deboli, di quelle persone che noi non vediamo e talvolta non vogliamo vedere, cominciando a cambiare questi luoghi disumani che sono i Cie.

Immigrazione e cambiamento delle società europee

14 Agosto, 2013 (12:33) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

di Livia Turco, da L’Unità del 14 agosto 2013

In questi giorni in cui si susseguono gli sbarchi sulle nostre coste di persone che fuggono dalla povertà e dalla guerra, Governo e forze politiche hanno giustamente posto la necessità che l’Italia non sia lasciata sola nel gestire l’emergenza e che ci sia una politica Europea sull’immigrazione. Essa è talmente necessaria e cruciale che è doveroso non solo invocarla ma entrare nel merito in modo concreto. Con una premessa: l’Europa non può essere invocata per esonerare in qualche modo il nostro paese dal dovere di accoglienza. C’è innanzitutto una questione di approccio.

Quello dell’immigrazione non è una questione specifica da trattare in un ottica e con politiche specifiche. Essa è un ingrediente ed è motore del cambiamento delle società europee. Dunque va collocata all’interno della politica estera e della politica economica e sociale europea. Nella consapevolezza che non è facile definire una politica comune perché diverse sono le configurazioni sociali, culturali e gli interessi dei singoli paesi europei, tra quelli del nord Europa e quelli che si affacciano sul Mediterraneo. Una politica comune e non solo intergovernativa deve partire dalla consapevolezza che proprio la crisi economica e sociale comporta delle innovazioni nella gestione del mercato del lavoro e del Welfare in cui l’elemento immigrazione può svolgere un ruolo importante. Per esempio la mobilità delle persone sarà un requisito indispensabile per un mercato del lavoro efficiente.

Ed allora ecco un primo indirizzo di una politica comune europea: facilitare la mobilità all’interno dei paese dell’Unione europea degli immigrati lungo residenti a partire dalla concessione dei visti per consentire loro di spostarsi dal paese di residenza per cambiare o trovare un nuovo lavoro. Ciò significa anche garantire la portabilità dei diritti per non penalizzare chi ha la disponibilità a muoversi ed a rischiare. Se e ‘ vero che la competenza relativa alle quote di ingresso per lavoro è in capo agli stati nazionali, anche in relazione alla crisi economica ed alle innovazioni da costruire, sarebbe utile definire un quadro europeo dei fabbisogni di professionalità e competenze per gestirli con flessibilità “ed il principio di mobilità prima indicato. È  urgente, inoltre, che l’Unione Europea solleciti gli Stati e promuova essa stessa in prima persona politiche di parternariato con i Paese del Mediterraneo e con l’Africa per la cooperazione ,il co -sviluppo, utilizzando anche le competenze degli immigrati che sono da molto tempo nei nostri paesi ma sono ben legati ai loro luoghi di origine.

Così come è importante incentivare l’immigrazione circolare e le politiche dei rimpatrii assistiti. L’altro indirizzo di una politica comune riguarda l’integrazione. Passi significativi sono stati compiuti in questi anni, almeno dal punto di vista de gli indirizzi politici e culturali. L’Unione Europea ci sollecita alla interculturalità attraverso la pratica della interazione, mette in risalto il ruolo della scuola, l’attenzione ai giovani ed alle donne, il ruolo fondamentale dell’associazionismo dei migranti. Bisogna estendere a livello europeo il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati lungoresidenti come fattore di integrazione, di costruzione di un legame di appartenenza e dunque di diritti e doveri verso il paese in cui si è nati e si cresce. Bisogna rilanciare la cittadinanza di residenza ed il diritto i voto a livello locale come previsto da una ormai longeva Convenzione .Cruciale è la questione del diritto d’asilo.

Passi in avanti sono stati compiuti con la recente direttiva per quanto attiene la definizione di procedure comuni per la identificazione del rifugiato e di uno standard comune per l’accoglienza. Resta da risolvere la questione contenuta nel dispositivo”Dublino2″che obbliga il rifugiato a rivolgere domanda ed a permanere nel primo paese di approdo. Questo grava l’accoglienza su Paesi come l’Italia e lede i diritti delle persone che tante volte vivono il nostro paese come approdo e transito e non come meta. Così come vanno redistribuite le risorse per sostenere i paesi più esposti all’arrivo di persone in cerca di aiuto. Per una politica comune Europea bisogna che ogni paese guardi all’immigrazione in un ottica complessiva e con un idea di Europa. La Carta dei Diritti Umani Fondamentali dell’Unione è un riferimento prezioso. Parla di unità nella diversità, di un Europa Unita che riconosce e valorizza le sue differenze. Dobbiamo costruirla. Questa è una piattaforma che deve vedere il Partito Democratico determinato e combattivo. L’unità nella diversità dovrebbe essere un à tratto chiaro e netto della sua identità, una sua bandiera per la qualità della convivenza in Italia, in Europa ed in ogni parte del mondo.

Caro Sartori, ma quale “terzo mondismo dogmatico”

20 Luglio, 2013 (12:11) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

Dal Corriere della Sera del 20 luglio 2013

Non ho mai goduto della simpatia del professor Giovanni Sartori. Tuttavia credo di aver letto i suoi libri e mi ostino a discutere pacatamente. Quello che lui definisce terzomondismo dogmatico e pressoché fanatico (Corriere, 17 luglio) fu una politica tradotta nella legge 40/98 e nel decreto legislativo 286/98 che ebbe come protagonisti non solo la sottoscritta, ma personalità come Prodi e Giorgio Napolitano.

Tali leggi si basavano sul presupposto che non basta l’accoglienza, dato che non tutti possono essere accolti nel nostro Paese, ma che è possibile una immigrazione regolata e coniugare la sostenibilità sociale ed economica dell’immigrazione con il rispetto della dignità umana. Ne derivarono politiche concrete ed efficaci: 150 accordi di riammissione delle persone entrate clandestinamente, accordi bilaterali di cooperazione, quote di ingressi regolari per lavoro, diritti e doveri per gli immigrati, tra i quali il diritto di voto. Quando la Destra ha abbandonato queste politiche ricorrendo ai Cie, ai respingimenti in mare, al reato di immigrazione clandestina, sono aumentati gli sbarchi, è aumentata l’immigrazione irregolare ed è aumentata l’insicurezza sociale.

Quanto allo ius soli, convengo con il professor Sartori che le semplificazioni non aiutano. Non proponiamo infatti di dare la cittadinanza ai figli di immigrati che nascono in Italia, ma ci proponiamo una piena integrazione dei bambini e ragazzi che crescono nel nostro Paese, si sentono italiani, ma non sono riconosciuti tali dall’ordinamento in vigore. La proposta Bersani del Pd propone che sia riconosciuta alla nascita la cittadinanza ai figli di quei genitori immigrati che hanno un progetto di integrazione nel nostro Paese e vi risiedono da almeno 5 anni.

Quanto alla ministra Cecile Kyenge, che mi onoro di conoscere bene, è in possesso di una laurea preziosa per il suo lavoro: ha cresciuto due figlie che sono campionesse di integrazione ed ha insegnato a tanti immigrati ad amare il nostro Paese ed a rispettarne le regole. Ora con la sua pacatezza ed umanità sta dimostrando agli italiani che per essere bravi ministri non conta il colore della pelle e il Paese in cui si è nati.

Livia Turco

Con l’onorevole Livia Turco siamo e restiamo in disaccordo da sempre. Ma siccome di recente ho fatto una nuova proposta fondata sulla residenza permanente (trasmissibile ai figli) dell’immigrato regolarmente ammesso in Italia, confesso che speravo e contavo su un suo intervento su questo punto. Peccato. Così mi ha deluso, ma grazie lo stesso. (g. s.)

Lampedusa. Le parole del Papa e la politica

11 Luglio, 2013 (11:50) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

di Livia Turco, da l’Unità

Una buona politica dovrebbe sempre ascoltare le parole della Chiesa. Comprenderne il significato. In quanto parole che parlano dell’uomo e della sua umanità. Assumerle come lievito nel suo pensare ed agire il bene comune. All’interno di quella distinzione dei piani che sostanzia il principio di laicità.

Continua invece ad accadere che le parole del Papa sono esaltate quando sono condivise o liquidate come interferenti quando non lo sono. Come ha fatto l’on. Cicchitto in merito alle parole di Papa Francesco a Lampedusa. Questo atteggiamento strumentale verso le parole della Chiesa toglie libertà ed autorevolezza alla politica. Tanto più quando si trova difronte ad un messaggio dirompente come quello proposto da Papa Francesco a Lampedusa.

Un messaggio che va oltre la questione dell’immigrazione perché ci obbliga a ritrovare il senso, il sentimento della nostra appartenenza al genere umano. Voglio citare il passaggio cruciale di tale discorso “La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri. Ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta alla indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione della indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro che non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende “innominati” responsabili senza nome e senza volto”.

Queste riflessioni ci interpellano come donne e come uomini nella nostra umanità profonda, sul senso della nostra vita. Ma sono riflessioni che riguardano anche la politica non solo per quanto attiene il governo dell’immigrazione ma su quale tipo di società vogliamo costruire, quali cittadini e cittadine vogliamo essere. Ci dice che senza una rivoluzione antropologica che faccia  riscoprire in questo nostro tempo, dopo la bonaccia e le distorsioni dello sviluppo capitalistico e del consumismo, che ha declinato la nostra umanità “sull’io proprietario” sul mito del successo, dell’apparire, della competizione, il senso del riconoscimento dell’altro, la relazione con l’altro, il legame comunitario, senza questa rivoluzione antropologica non si esce dalla crisi attuale e non si costruisce una convivenza umana più serena ed equa.

Non ci sarà più giustizia, più benessere, piu democrazia se non cambia la dimensione umana della nostra vita individuale e collettiva. Se dall’io proprietario ed acquisitivo non si passa all’io relazionale che sa prendere in carico l’altro. Non è solo questione di etica e di felicità individuale. La relazione con l’altro, la capacità di fare gioco di squadra, di costruire comunità è un ingrediente essenziale per la rinascita della democrazia e per rimettere in moto lo sviluppo. Dobbiamo riconoscere con lealtà che la trascuratezza dell’altro, noi donne e uomini dell’Europa, l’abbiamo vissuta in particolare nei confronti dei migranti. Si è come spento in noi lo sforzo di immaginare e capire cosa vuol dire scappare dalla fame e dalla guerra, di capire quell’anelito potente alla libertà ed alla dignità, alla ricerca di una vita migliore.

Eppure la nostra società emocratica e del benessere è stata costruita proprio facendo leva sulla potenza di quell’anelito alla libertà ed alla dignità. Dunque dovremmo capire che nel movimento migratorio non c’è caos e disordine ma la forza della speranza per costruire un mondo migliore che è stata nel corso della storia il motore del cambiamento. Certo,l’immigrazione è un fenomeno duro e complesso che va governato con sapienza. Ma un conto è dire ad un uomo ad una donna “non c’e'posto per te” alzando i fili spinati e praticando i respingimenti in mare. Altra cosa è dire a quello stesso uomo a quella stessa donna “non sono in grado di accoglierti perché ci sono tanti problemi anche qui per questo dobbiamo costruire insieme una società più giusta ed umana”. Ed attivare una politica europea di co-sviluppo, di ingressi regolari per lavoro, di valorizzazione delle competenze e del capitale umano di tutte le persone. Native e migranti.

Livia Turco

Kyenge: sull’immigrazione legge pronta dopo l’estate

7 Luglio, 2013 (10:52) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

di Rachele Gonnelli (L’Unità del 7 luglio 2013)

Può darsi che il Santo Graal debba essere una tazza di ceramica povera trattata con noncuranza dai cavalieri dall’elmo lucente come nella saga di Indiana Jones. Così può essere che il catoblepismo - e con esso il modello di partito nuovo, in grado di essere contemporaneamente palestra di nuove idee, scuola-quadri e coordinamento di politiche nazionali - o anche il motore interno che fa funzionare il Pd come partito di massa malgré lui, cioè nonostante le frantumazioni correntizie e la litigiosità del suo vertice, si trovi in ciò che va sotto il nome di Forum immigrazione, articolazione viva del Pd.

La prova sta nell’affollata riunione di ieri nel salone conferenze del Nazareno alla presenza della ministra all’Integrazione Cécile Kyenge - che per altro proprio dal Forum viene - del vice ministro all’Interno Filippo Bubbico e del segretario del Pd Guglielo Epifani. Va in scena la politica che cerca di analizzare i nodi della complessità, che parte dai territori e dà soluzioni e idee, che riesce ad aggregare e a formare i giovani e anche a parlare al mondo della cultura, che dialoga con le associazioni, che riesce a fornire esempi di buone pratiche locali, come richiesto dal ministro Kyenge, e a darle indicazioni utili oltre che sostegno.

È un’esperienza nuova e già matura, che si è strutturata nel corso degli ultimi tre anni a partire dal tema che più incarna le contraddizioni della globalizzazione. Parlare di immigrazione significa infatti parlare di sanità e di scuola, di pace, di identità personale e di popolo, delle forme della partecipazione democratica, dell’emancipazione femminile declinata nelle varie culture e religioni, della battaglia contro le logiche sempre emergenziali e securitarie che creano sprechi e calpestano persone e diritti.

Il Forum è una rete di relazioni ed è vissuto come comunità. Prefigura in sé, anche plasticamente, l’idea di società che vuole portare nel Paese: ieri di qua e di là dal tavolo della presidenza, con al centro Livia Turco, volti di diverso colore e provenienza geografica. Una riunione multietnica sul futuro dell’Italia in cui le diversità, anche abissali, sono sentite da tutti come ricchezza, nel confronto, per far maturare una sintesi comune. Il Forum manda al governo Letta dieci proposte di riforma e una proposta di legge-quadro sull’immigrazione e il diritto d’asilo in dieci punti.

Tra le proposte: la cancellazione della tassa sul permesso di soggiorno, la riduzione dei tempi di permanenza nei Cie, l’allungamento dei permessi di soggiorno per chi perde il lavoro, la gestione dei rinnovi dei permessi da parte dei Comuni, il riconoscimento dei titoli di studio dei Paesi extra-Ue, la semplificazione del diritto di voto amministrativo per i migranti comunitari, l’istituzione di un albo dei mediatori interculturali, tempi certi e accorciati per le naturalizzazioni. Kyenge spiega come, a partire dal lavoro avviato dalla commissione Affari costituzionali e del neonato intergruppi parlamentare che prenderà in esame le 20 proposte di legge presentate sulla riforma della cittadinanza, vuole arrivare «dopo l’estate» all’approvazione del testo finale. Lei intende intavolare il compromesso intorno alla proposta del Forum che, sulla scia del progetto Bersani, chiede il riconoscimento della cittadinanza italiana per i nati in Italia prima dell’inizio della prima elementare.

Pieno il sostegno del segretario Epifani che, «grazie anche all’aiuto che ci viene dal nuovo pontificato» e dalla visita di Papa Francesco lunedì prossimo a Lampedusa, è convinto che sullo ius soli - e più in generale sull’ampliamento dei diritti civili - «sia possibile trovare mediazioni più avanzate» in sede parlamentare. Anche se, aggiunge, «non sarà facile» non mettere a rischio gli equilibri di quello che continua a chiamare «governo di servizio». Epifani appoggia anche la richiesta che i responsabili dei Forum Immigrazione locali entrino a far parte di diritto delle segreterie del Pd.

Molti gli interventi che hanno chiesto la chiusura dei Cie e dei Cara per come sono - «una vergogna», ha ricordato Christofer Hein - e la loro sostituzione con altri strumenti, dal potenziamento del rimpatrio volontario assistito all’implementazione dei progetti Sprar per il ripopolamento dei piccoli centri grazie a nuclei di famiglie di asilanti, progetti su cui si sono concentrati gli interventi del sindaco calabrese Giovanni Manoccio e dell’assessora aretina Stefania Maggi. Livia Turco ha dato indicazione di firmare per il referendum radicale di abolizione del reato di clandestinità. E al congresso si discuterà anche una mozione trasversale sull’immigrazione.

Politiche sociali. Il grido di dolore contro i tagli

8 Giugno, 2013 (12:58) | Articoli pubblicati | Da: Livia Turco

di Livia Turco, da l’Unità dell’8 giugno 2013

Il Governo deve raccogliere subito il grido di dolore che proviene dagli operatori sociali, dalle famiglie, dal volontariato, dai sindaci che non ce la fanno più a reggere il massacro che nel quinquennio scorso è stato compiuto nei confronti delle politiche sociali vedendosi costretti a tagliare i servizi essenziali. Il Governo deve dare subito una risposta: incrementare il fondo per le politiche sociali. Deve considerare tale intervento una “priorità morale”. Sono stati gli stessi Ministri Giovannini e Guerra nel corso della illustrazione del loro programma di Governo alla Commissione Affari Sociali ad affermare con tono allarmato che per il 2014 le regioni sono “a secco” e le poche risorse strappate sul 2013 non sono ancora nelle disponibilità del Ministero della Politiche Sociali e delle regioni.

La Sottosegreteria Cecilia Guerra ha affermato “manca un’attenzione specifica alla peculiarità delle politiche sociali del nostro Paese”. Vorrei riuscire a trasmettere al Presidente Enrico Letta, di cui conosco la sensibilità umana, lo strazio che incontro andando in giro tra comunità, servizi, operatori. A Genova, come qualche giorno fa a Foggia con la straordinaria Comunità di Emmaus, a Verona dove si incontrano le associazioni della famiglie con persone disabili gravi, o all’ospedale San Gallicano di Roma dove la fila di chi chiede assistenza gratuita si allunga ogni giorno di più. Lo strazio di dover chiudere i servizi essenziali che vuol dire non poter aiutare chi ha bisogno, non poter sostenere e a volte interrompere il percorso di uscita dalla fragilità , dalla marginalità di chi invece potrebbe uscirne, potrebbe farcela. Lo strazio di non potersi prendere cura in modo adeguato dei bambini e degli anziani, degli adolescenti che fanno fatica. Quando si parla di servizi sociali si parla di persone, dei loro talenti, della loro dignità, della loro sofferenza. Della possibilità di uscire dal tunnel della sofferenza, della marginalità e della fragilità.

Non è più accettabile che questo grido di dolore resti inascoltato, sia soffocato dalle altre tante emergenze. È importante e doveroso, come ha fatto il Presidente Letta, ascoltare in modo serio e determinato il disagio di chi perde il lavoro e dei giovani che non l’hanno mai avuto ma insieme bisogna farsi carico delle persone per le quali non basta il lavoro e il reddito ma hanno bisogno di quella risorsa peculiare che è la presa in carico, la relazione umana, l’attivazione di strategie per l’inserimento lavorativo, quello scolastico che possano ridare fiducia alle persone, a risvegliare la propria volontà e le proprie capacità sopite. C’è uno scarto grande, preoccupante, tra il ruolo che i servizi sociali svolgono nel miglioramento e nella crescita della vita delle persone, in tutte le fasi del ciclo della vita, ed il valore sociale, il riconoscimento che è loro attribuito dal senso comune, dai media e dalla politica. Le politiche sociali sono “oro” nella vita delle persone fragili, ma è un oro che non luccica. Bisogna farlo luccicare. Bisogna risalire la china e invertire la tendenza culturale che per colpa del centro destra e in particolare del duo Tremonti-Sacconi ha contrapposto diritti e carità, politiche pubbliche e dono, gratuità del volontariato.

Bisogna contrastare questa impostazione, mettere al centro la dignità della persona che è cittadinanza, diritti, relazioni umane. La dignità della persona si nutre di diritti e della cura dell’altro, idee e valori che sono scritti nella legge quadro del 2000 che deve essere applicata. Stanziando risorse nel Fondo per le Politiche Sociali, facendo finalmente i livelli essenziali di assistenza sociale, portando avanti con determinazione la lotta alla povertà con il Reddito Minimo di Inserimento di cui è in corso una importante sperimentazione. Bisogna cambiare l’ottica. I servizi sociali non sono assistenza. I servizi e gli interventi sociali sono ingredienti fondamentali dello sviluppo e della crescita economica. Le politiche sociali sono politiche di sviluppo.

Nel momento in cui il Governo mette in atto un programma per il lavoro deve considerare quale miniera possano rappresentare i servizi alle persone sia in termini di benessere sia in termini di creazione di posti di lavoro. Servizi che possono essere creati, inventati, gestiti in modo nuovo con la partecipazione attiva dei cittadini, con l’impegno delle aziende, dei soggetti privati. Sono importanti le iniziative di mutualità integrativa, di welfare aziendale, di cittadinanza competente che si stanno sviluppando in molte regioni così come bisogna proseguire sulla strada intrapresa dal Ministro Barca che ha destinato riscorse dei fondi strutturali alla promozione dei servizi per l’infanzia e per gli anziani considerandoli appunto parte della crescita e dello sviluppo economico. Raccogliere il grido di dolore di chi non ce la fa, dei sindaci che non vogliono chiudere i servizi essenziali significa non solo difendere l’esistente ma cimentarsi per creare un welfare nuovo in cui il ruolo del pubblico è quello di costruire la regia, di creare le condizioni affinchè ciascun soggetto economico e sociale dia il suo contributo per promuovere solidarietà ed inclusione sociale.

Il passo in avanti che le istituzioni devono compiere è quello di coinvolgere il sapere e la competenza dei diversi soggetti sociali ed economici per costruire un progetto condiviso di benessere e di inclusione sociale. Il governo raccolga questo grido di dolore per farsi promotore insieme ai Comuni al no-profit, alle famiglie, al volontariato, alla imprese di una nuova primavera delle politiche sociali. Per una Italia più giusta e più serena.

Livia Turco