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Categoria: Interviste

Politiche sociali. Basta con i tagli. Governo intervenga

10 Giugno, 2013 (18:28) | Interviste | Da: Redazione

Intervista a Livia Turco di Quotidiano Sanità del 10 giugno 2013

La dura politica di tagli che negli ultimi anni ha visto il depauperamento del Fondo per le Politiche sociali e degli altri fondi dedicati al Welfare non lascia inerme l’ex ministro della Solidarietà sociale (dal 1996 al 2001) e della Salute dal 2006 al 2008), Livia Turco, promotrice della legge quadro di riforma dei servizi sociali, la 328 del 2000, che in quest’intervista chiede al Governo di dare subito una risposta al disagio crescente incrementando il fondo per le politiche sociali di almeno 500 milioni di euro. E poi si rivolge al centrosinistra: “Deve rimettere al centro della sua agenda il tema delle politiche sociali”. Duro attacco al centrodestra. “I tagli operati negli ultimi anni non dipendono dalla crisi ma da una deriva ideologica perpetuata da dieci anni a questa parte”.

Come valuta questa continua erosione ai fondi dedicati al Welfare?
I numeri purtroppo rappresentano una realtà e nella passata legislatura ci siamo battuti per contrastarla fortemente. Mentre il Governo di centrodestra diceva che andava tutto bene intanto tagliava ad uno ad uno ogni Fondo dedicato al Welfare.

Ma la ragione dei tagli non è dovuta alla crisi?
In questo caso non è così, i tagli al welfare fanno parte di una deriva ideologica messa in atto dal duo Tremonti-Sacconi e prima di loro anche da Maroni quando era ministro del welfare. Oltre a dimenticare tutto l’impianto della legge 328/2000 hanno inculcato l’idea che le politiche sociali fossero sprechi e assistenzialismo, contrapponendo in questo modo diritti e carità, politiche pubbliche e dono, gratuità del volontariato. Un errore imperdonabile, figlio di un’ideologia politica, che oggi ci fa decretare la scomparsa delle politiche sociali nel nostro Paese.

Al centro sinistra si sente di dover rimproverare qualcosa?
Purtroppo la sinistra non è riuscita a contrastare efficacemente questa deriva culturale. Ci si è battuti in Parlamento ma è evidente che l’idea delle politiche sociali si è allontanata dal centro dell’agenda della sinistra. Ed è per questo che anche a sinistra c’è bisogno di riportare in auge e al centro dell’agenda politica il welfare. Occorre darsi una svegliata. Bene ha fatto il premier Letta a focalizzare l’attenzione sul tema del lavoro. Ma questo non basta. Serve una nuova idea del welfare come quella che si era aperta nella stagione tra il ’96 e il 2001, anni dove si è investito tanto su chi in quel momento non aveva voce e non riceveva risposte rispetto ai suoi bisogni. Basti pensare come in quegli anni è stato costituito il Fondo per le Politiche sociali e nella durissima Legge Finanziaria che servì a farci entrare nell’euro riuscimmo a stanziare 800 milioni per la legge 289 sull’infanzia e per il reddito minimo d’inserimento.

Ma da quale idea di welfare occorre ripartire?
Innanzitutto si deve partire da quattro pilastri irrinunciabili: scuola, sanità, sociale e reti integrate. Solo costruendo un sistema che comunica e che condivide problematiche e scelte si possono indirizzare efficacemente le risorse e soddisfare il disagio di chi è più fragile. E poi bisogna coinvolgere sempre più di i cittadini e le loro competenze. Puntare sulle innovazioni e sulla sussidiarietà. E smetterla assolutamente di guardare al sociale come mero spreco assistenziale. Dobbiamo tornare a parlare di diritti sociali. Quando si parla di servizi sociali si parla di persone, dei loro talenti, della loro dignità, della loro sofferenza. Della possibilità di uscire dal tunnel della sofferenza, della marginalità e della fragilità.

Come vede lo sviluppo del welfare integrativo?
Non ho nessun pregiudizio sul tema o sulle nuove strade. In un quadro in cui le politiche sociali rappresentano un volano di sviluppo è importante coinvolgere anche il privato su questi temi. Penso per esempio anche alla costruzione di veri e propri patti territoriali e di fondi cofinanziati.

Auspica per il futuro che si riesca ad invertire la rotta?
Più che un auspicio questo deve diventare un impegno del Governo così come si sta lavorando su Imu e Iva. Per questo è fondamentale per il 2014 ridare ossigeno al Fondo per le Politiche sociali almeno con 500 milioni di euro. Ma ripeto bisogna intervenire subito perché oggi l’unico welfare in Italia è quello delle famiglie che però sono allo stremo. Il rischio dell’immobilismo è lasciare una moltitudine di persone ancora più sole con le loro fragilità. Bisogna farsi carico delle persone per le quali non basta il lavoro e il reddito ma hanno bisogno di quella risorsa peculiare che è la presa in carico, la relazione umana, l’attivazione di strategie per l’inserimento lavorativo, quello scolastico che possano ridare fiducia alle persone, a risvegliare la propria volontà e le proprie capacità sopite. Non è più accettabile che questo grido di dolore resti inascoltato, sia soffocato dalle altre tante emergenze. Occorre muoversi subito a partire dal fatto che per l’anno prossimo vanno trovati i fondi.

Ciao Parlamento!

22 Gennaio, 2013 (14:59) | Interviste | Da: Redazione

Intervista di Claudia Daconto a Livia Turco su Panorama.it del 18 gennaio 2013

Era il 1987 e il Pci aveva perso una barca di consensi alle prime elezioni dopo la morte di Enrico Berlinguer. Alla prima Direzione nazionale del dopo voto prendono parte quaranta uomini e tre donne: Nilde Jotti, Lalla Tropia e una giovanissima Livia Turco. Felice del suo primo ingresso alla Camera insieme a tante altre compagne elette grazie a una durissima battaglia all’interno del loro partito per ottenere il 30% di rappresentanza, è lei la prima a prendere la parola: “Il Pci ha perso, ma le donne hanno vinto”. “Sì – il commento gelido di Giancarlo Pajetta – le disgrazie non vengono mai da sole”.
“Il clima dell’epoca era questo, fuori e soprattutto dentro il Pci” ricorda oggi Livia Turco, 58 anni il prossimo 13 febbraio, 25 dei quali trascorsi in Parlamento e che adesso si appresta a lasciare.  Non si sente, infatti, né troppo giovane per chiedere una deroga al Pd per farsi ricandidare, ma nemmeno troppo vecchia per mettersi in pensione.

“Sto sempre qui a combattere – esordisce con noi - mica penserete che sono a casa a girarmi i pollici?”
Ai vertici della Figc prima, del Pci poi, dei Ds, del Pd, ministro della Repubblica per quattro volte: ma perché proprio adesso ha deciso di dire basta?
E’ una decisione maturata nel mio cuore da molto prima che Renzi iniziasse a parlare di rottamazione. Credo che le donne della mia generazione debbano fare un passo al lato e investire sulle giovani.

E cosa pensa di chi, come Rosi Bindi, si è battuta fino in fondo per rimanere in campo?
Penso che abbia fatto bene a puntare i piedi perché se da una parte è giusto che il Parlamento si rinnovi, altrettanto giusto è che ci rimanga anche chi ha fatto la storia di questo partito. Ritengo che ci sarebbero dovuti rimanere anche Veltroni e D’Alema. E probabilmente anch’io, ma ho deciso di fare una scelta diversa.

D’Alema e Veltroni potrebbero essere chiamati al governo. Piacerebbe anche a lei rifare il ministro?
Le esperienze di governo sono state per me le più belle e le più importanti, quindi sarei molto ipocrita se dicessi che non mi piacerebbe, ma penso che Bersani proseguirà nell’azione di rinnovamento che ha iniziato.

Come ricorda il primo giorno, nel 1987, che mise piede in Parlamento?
Ah lo ricordo benissimo! Soprattutto perché in quell’occasione entrò con me una frotta di donne giovani del Pci con cui avevo combattuto una battaglia durissima all’interno del nostro partito cui imponemmo il 30% di presenze femminili tra i candidati. Fu una rottura.

E come fu presa?
Nel Pci, che da quelle elezioni era uscito pesantemente sconfitto, malissimo. Ricordo una riunione della direzione in cui, tra quaranta uomini, eravamo presenti, come donne, solo io, Nilde Jotti e Lalla Tropia. Io presi la parola e dissi: “Il Pci ha perso, ma le donne hanno vinto”. Mi rispose Pajetta: “Sì, le disgrazie non vengono mai da sole”.

E gli altri parlamentari come vi accolsero?
La battuta che girava era: “Vedremo cosa saprete fare”. Ma ricordo anche Andreotti che entrando alla Camera chiese: “Cos’è tutto questo colore?”. Eravamo noi che sfidavamo anche nell’abbigliamento il grigiore di quell’ aula. Tanto che, ancora oggi, le mie amiche Rosa Russo Jervolino e Maria Pia Garavaglia, che allora stavano con la Dc, riconoscono la grande scossa che demmo anche a loro.

Qual è stato il risultato più importante che ritiene di aver raggiunto nella sua carriera politica?
Ce ne sono diversi: tutte le leggi che ho fatto da ministro, quella sulla violenza sessuale. E sono anche molto orgogliosa di aver contribuito ad aprire il dibattito sulle quote rosa che oggi ha portato alla legge sulla doppia preferenza di genere.

Di cosa le resta invece il rimpianto?
Mi dispiace molto non poter essere in Parlamento per votare la legge per la cittadinanza ai minori figli di stranieri che ho voluto con tutto il cuore quando ero ministro per la Solidarietà sociale. Nel 1999 presentai anche il primo testo di legge che però rimase nel cassetto dell’allora ministro Giuliano Amato il quale mi disse: “Ma sarai mica matta, con i tempi che corrono, a voler cambiare la legge sulla cittadinanza?”

C’è qualcosa invece di cui si è pentita?
Francamente no. Nemmeno dell’appoggio al governo Monti.

C’è stato un momento in cui, prima di oggi, ha pensato di voler mollare?
Spesso durante quest’ultima legislatura. Ho molto sofferto nell’assistere al degrado della politica e per la polemica sulla casta, questo essere stati messi tutti sullo stesso piano.

Tra i suoi avversari politici chi ha stimato di più?
Ne ho stimati molti. Ci sono tante donne del centrodestra con cui sono in ottimi rapporti. Penso ad Alessandra Mussolini, Adriana Poli Bortone, Margherita Boniver, Angela Napoli, Beatrice Lorenzin, una giovane che mi piace molto.

A chi si è ispirata di più in questi lunghi anni?
Sicuramente a Nilde Jotti che è stata per me una vera madre. Ma anche a Tina Anselmi, di cui ricordo il sorriso aperto, la pacca sulla spalla quando perdevo delle battaglie e lei mi consolava: “Non ti abbattere”. E mi fa piacere citare Maria Eletta Martini che da democristiana stimava molto il Partito Comunista e una volta mi si avvicinò e ammirata mi chiese: “Ma da dove avete tirato fuori tutte queste giovani?”.

Cosa ne pensa davvero della cosiddetta società civile quando “ruba” il posto ai professionisti della politica come lei?
Io non ho mai capito bene questa distinzione tra società civile e politici visto che io sono teoricamente una professionista della politica che è sempre stata, però, anche nella società civile. Ho iniziato nelle parrocchie, con le donne credenti, nei movimenti delle donne. Nella mia biografia è molto difficile distinguere.

Cosa consiglierebbe a un giovane che volesse impegnarsi in politica?
Di stare il più possibile in mezzo alle persone. Gente come Grillo, che si rapporta con gli altri solo attraverso la rete, mi fa paura. A me hanno insegnato che dovevo conoscere tutto del quartiere dove abitavo e guardare negli occhi le persone.
La vera novità di queste elezioni secondo lei quale è stata, qual è o quale sarà?
Senza dubbio le primarie del centrosinistra. Ho percepito nella scelta di Pier Luigi Bersani una svolta, un colpo al degrado della politica.

Chi vorrebbe fosse il prossimo presidente della Repubblica?
Romano Prodi o Massimo D’Alema.

Qual è il suo sentimento dominante in questo momento?
Sono molto serena. E se pensate che mi stia riposando vi sbagliate. Sto lavorando come una pazza per organizzare la campagna elettorale del mio gruppo di immigrati e vado in giro a sostenere le mie amiche. E anche dopo il 26 febbraio continuerò a fare politica. Magari prima, però, mi riposo un po’.

E adesso mi cercherò un lavoro…

19 Dicembre, 2012 (20:01) | Interviste | Da: Redazione

Titola così l’intervista a Livia Turco pubblicata oggi dal Secolo XIX dopo l’annuncio di non candidarsi alle prossime elezioni politiche rinunciando a deroghe o ripescaggi di alcun tipo.

“Ho fatto il parlamentare per più di quindici anni?. Ci siamo dati una regola. E siccome io ho patito molto la storia della Casta, sono molto contenta di rispettarla”…

Leggi l’intervista integrale a Livia Turco

“Basta umiliare e liquidare un’intera generazione”

16 Ottobre, 2012 (11:53) | Interviste | Da: Redazione

Intervista a Livia Turco di Maria Zegarelli, su l’Unità del 16 ottobre 2012
«Non è Matteo Renzi a doverci dire cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Io ho annunciato un anno fa che non mi sarei ricandidata alle prossime elezioni». Livia Turco non si lascia intimidire, spiega al telefono, dagli «attacchi umilianti» del sindaco di Firenze. Rilancia: «La classe dirigente del partito deve rispondere con fermezza a tutto questo».

Onorevole, lei prese la sua decisione un anno fa. La questione del rinnovamento esiste o Renzi sta esagerando?

«Io annunciai la mia decisione durante un’Assemblea delle donne parlando di passaggio di testimone e solidarietà tra le generazioni. Di madri e di figlie che si riconoscono reciprocamente…».

Oggi il clima è diverso. Vi chiedono molto esplicitamente di farvi da parte.

«Non a caso ho voluto ricordare il contesto e il messaggio di un anno fa che era diametralmente opposto a quello che oggi ci propone Renzi e non solo lui. Non siamo soltanto difronte ad un atteggiamento liquidatorio nei confronti di una generazione, ma anche di fronte ad un messaggio pericoloso e contraddittorio per i giovani perché da una parte si avalla l’idea che sia sufficiente il dato anagrafico per avere competenze, dall’altra si valorizza il merito. Per non parlare, poi, di un elemento di umiliazione personale che è inaccettabile».

Lei dice: D’Alema, Veltroni e Bindi devono restare in Parlamento. Non le sembra di andare contro quello che sembra un sentimento diffuso che vuole facce nuove?

«Il rinnovamento va portato avanti ma vanno valorizzate competenze, simboli e storia che non sono aspetti secondari in politica. Questa è la battaglia che sto facendo e trovo molto consenso, la domanda di rinnovamento è forte, lo voglio io per prima, ma deve avvenire nel rispetto tra le generazioni e la storia delle persone. In un momento come questo è facile cavalcare le semplificazioni ma il compito della politica è di andare oltre e di guidare in maniera responsabile il ricambio della classe dirigente. La campagna denigratoria in atto verso alcuni, penso in particolare a Massimo D’Alema, deve essere respinta e contrastata a viso aperto dal gruppo dirigente del Pd, senza timidezze. Qui non è in gioco soltanto il rispetto di un autorevolissimo dirigente del partito ma è in gioco il modo stesso di intendere il Pd».

Anche Bersani dovrebbe essere più deciso nel difendervi?

«Bersani ha dato un messaggio molto chiaro da Bettola. Ha detto una cosa bellissima: non possono esserci nuove foglie senza radici robuste. Io lo interpreto come un riconoscimento delle persone e della storia delle persone, dopodiché se un po’ tutti dicessimo in modo corale che l’attacco a D’Alema è un attacco che colpisce tutti sarebbe un gesto apprezzabile».

D’Alema dice che sarà il partito a decidere sulla sua candidatura. Perché deve decidere il partito e non i singoli?

«Ha ragione D’Alema perché mette l’accento sulla responsabilità collettiva. Come dice Bersani in un partito conta il collettivo e quindi ciascuno di noi deve rimettersi ad una decisione collettiva. Sono dispiaciuta della scelta di Veltroni, che è stato un gesto di grande disponibilità, perché Walter è un simbolo importante per il nostro partito e il suo posto dovrebbe essere in Parlamento».

Tiziano Treu, che non si ricandiderà, spera che il Pd non conceda molte deroghe. Lei che ne pensa?

«Ha ragione Treu, ci sono delle regole e noi dobbiamo rispettarle. Le deroghe dovranno essere molto limitate e decise con grande trasparenza».

Dopo la sfida di Renzi resta della sua idea o anche lei si rimette alla decisioni del partito per la ricandidatura?

«Non si fa politica solo in Parlamento, dunque, sono e resterò in pista. Anzi, di fronte a questi attacchi, a questi metodi così grossolani del sindaco di Firenze, sono ancora più motivata. Mi sento di dirgli che non c’era bisogno che arrivasse lui a dirci come si fa il rinnovamento, che non ha nulla da insegnarci. Ha allestito il suo camper e gira l’Italia soltanto per dirci che dobbiamo farci da parte: gli rammento che Bersani ha già costruito un partito di giovani e non credo affatto che a Renzi stia a cuore il nostro partito e il rinnovamento, ma soltanto l’umiliazione di alcune persone. C’è una bella differenza».

“Io lascio, ma devono farlo anche gli altri”

12 Ottobre, 2012 (12:51) | Interviste | Da: Redazione

Intervista a Livia Turco di Wanda Marra - Il Fatto Quotidiano del 12 ottobre 2012

Sta ferma, incollata alla sedia della Commissione Affari sociali, Livia Turco. Si votano gli emendamenti al decreto sulla Sanità (che va in Aula lunedì) e in questi giorni da fuori si sente quasi solo la sua voce. Non molla un attimo. Eppure è pronta a non ricandidarsi. “L’ho detto parlando a una Conferenza delle donne del Partito democratico: sono pronta a lasciare. Però se lascio io lo devono fare anche gli altri”.

È provata Livia Turco. È tirata. Ma d’altra parte i numeri parlano chiaro: sono 7 legislature che siede in Parlamento. E lo Statuto del Pd fissa l’asticella a 3. Certo, fatta la legge trovato l’inganno: e c’è sempre la possibilità di una deroga. Questa volta, però, tra il tormentone rottamazione firmato Matteo Renzi e l’odio verso la casta non c’è da stare troppo tranquilli. Massimo D’Alema (7 legislature anche lui) ha appena annunciato che lui di passi indietro non ne fa. E che anzi, “Renzi si farà male”.

“Sia chiaro: io per la deroga a D’Alema sono pronta a fare le barricate”, dice con passione la Turco. Lei è da sempre tra le più vicine al Lìder Maximo, è di quelle che quando si parla di lui dice “D’Alema è D’Alema”. Non uno come gli altri. “Le deroghe devono essere tre: D’Alema, Veltroni e Bindi. Per questo sono pronta a battermi. Sì, perché “D’Alema ha portato il centrosinistra al governo, Veltroni ha fondato il Pd e la Bindi, con tutti i suoi difetti, è la presidente del partito”.

E gli altri? “Per gli altri, il discorso è diverso. Perché poi: D’Alema ha fatto la storia di questo partito e di questo paese. Ma anche io, anche io faccio parte della storia della sinistra italiana”. E allora, se io sono pronta a fare “un passo di lato” devono farlo anche gli altri. Dalle 4 alle 7 legislature ci sono tutti i capi corrente del Pd: 7 legislature, oltre a D’Alema e Turco, Anna Finocchiaro (che qualcuno tira in ballo pure come possibile candidata al Colle).

“Perchè, se me ne vado io non se ne dovrebbero andare gli altri? Ci sono altre mie colleghe che hanno qualcosa più di me?” A 6 legislature ci sono Franco Marini e Anna Serafini che sulla possibilità di lasciare non hanno detto una parola. Poi, Giovanna Melandri che si è data alla politica filantropica come presidente della Human Fondation. E Veltroni, che sta zitto, ma è “a disposizione” del partito.

Per una deroga, ovviamente. A 5, tra gli altri Castagnetti (che ha annunciato il gran ritiro) e la Bindi, che più battagliera non potrebbe essere. La sua insofferenza contro chiunque parli di big che devono lasciare ai giovani (sia Renzi o Matteo Orfini) trasuda da tutti i pori. Chi le è vicino arriva ad augurarsi che nella nuova legge elettorale ci siano le preferenze, perché così nel Pd capirebbero chi prende i voti. Con 4 Sposetti ha annunciato che farà il nonno, ma Fioroni proprio non ci pensa.

Insomma, è una bella richiesta quella che fa la Turco, che le deroghe siano solo tre. “Una cosa però la voglio dire - e l’ho anche scritto - a chi come Orfini e i giovani turchi dice che siamo stati incapaci di resistere al liberismo, che siamo una generazione fallita.

Questo non è vero, è inaccettabile. Siamo una generazione che ha fatto tante cose”. Sul dopo Parlamento la Turco non si sente (ancora) di parlare. Quel che è certo è che tiene molto alla Fondazione Nilde Iotti, di cui è Presidente. Obiettivo strategico: “Far diventare le donne classe dirigente”. Lei però, intanto, ha qualche altro sassolino dalla scarpa da levarsi: “Non mi sta bene essere additata come la casta, come quelli che mangiano, che rubano. Io mi sono fatta sempre il culo: è una cosa che non tollero”.

Perché “uno stipendio intero da parlamentare non l’ho mai visto in vita mia. Ho sempre versato al partito: prima al Pci, ora al Pd”. E non è finita qui: Bersani è pronto a chiedere un contributo ulteriore a chi lo sostiene alle primarie. “Faremo tutto, daremo tutto”.

Legge 40 e 194. Intervista all’Unità

29 Agosto, 2012 (14:00) | Interviste | Da: Redazione

Intervista a Livia Turco di Gioia Salvatori su L’Unità del 29 agosto 2012


«La legge 194 non si tocca, la legge 40, o quel che ne resta, va riscritta per superare i limiti che ancora ha». L’ex ministro della Salute del secondo governo Prodi e deputata Pd Livia Turco, nel giorno della sentenza della Corte europea contro i limiti che la legge 40 pone all’accesso alla fecondazione medicalmente assistita, affonda il colpo verso chi vorrebbe una modifica della legge 194, bolla la legge 40 come una legge «ideologica», e ringrazia tutte quelle coppie che, ricorrendo a tribunali e corti, ne hanno consentito lo smantellamento del cuore. In tema di diritti annuncia un progetto: terminare questa legislatura con la presentazione di una legge sul testamento biologico che sia frutto di una rielaborazione degli emendamenti presentati dal Pd.

Turco, la Corte europea rileva un’incongruenza tra la legge 40 e la 194 perché la prima consente l’aborto terapeutico la seconda non permette a tutte le coppie di ricorrere alla diagnosi preimpianto. Possibile nessuno si sia accorto di questo attrito?

«Questo è accaduto perché la legge 40 è frutto di una forzatura ideologica, figlia di uno scontro tra associazioni pro-life e gerarchie ecclesiastiche contro le forze laiche del Paese e una parte politica. Per questo è sbilanciata verso la tutela dell’embrione in uno modo che altera l’equilibrio tra diritti del nascituro e diritti della madre o della coppia. In questo vulnus si sono inserite tutte le sentenze che pian piano, negli anni, l’hanno smontata. Quest’ultima mette in risalto un abuso che l’allora ministro della Salute Sirchia fece delle linee guida: le usò come interpretazione della legge 40 anziché come mero strumento tecnico e in esse scrisse il divieto della diagnosi preimpianto che nel testo della legge non c’è».

Il movimento per la vita dice che se c’è un’incongruenza tra legge 40 e 194 va cambiata la seconda perché è figlia del ‘68 e del femminismo e si occupa solo della donna. Cosa replica?

«Rispondo che la legge 194 è una legge che ha funzionato: si proponeva di regolare e limitare gli aborti e l’obiettivo è stato centrato in pieno. Lo stesso non si può dire della legge 40 che, per esempio limitando a tre il numero degli embrioni da creare a ogni tentativo, ostacola la vita visto che è probabile che nessuno di questi si annidi. Inoltre ha portato al turismo sanitario poiché non prevede l’eterologa che mi rendo conto essere un nodo delicato».

Quali linee guida deve seguire un legislatore quando scrive una legge sull’inizio o sul fine vita, visto che si toccano temi delicati? Che idea si è fatta?

«Bisogna rispettare per le persone, le loro aspirazioni e le loro sofferenze. La legge 40 non lo fa, non crede nella responsabilità personale dell’adulto, tutta tesa a difendere una vita in potenza a discapito anche della salute delle donne». La legge 40 è una legge maschilista? «È una legge che non tiene conto del fatto che le donne sono gli individui che hanno più a cuore la vita. Una legge che pare voglia tutelare una vita in potenza dalla sua stessa madre. Una legge che non ha fiducia nelle donne. Tutto il contrario della legge 194 che facendo leva sulla responsabilità delle donne, ne tutela la libertà».

Perché quando era ministro ed emanò le nuove linee guida della legge 40, ampliò la rosa di coloro che potevano ricorrere alla fecondazione assistita includendovi chi è affetto da malattie sessualmente trasmissibili ma non pensò ad aprire pure alle coppie fertili ma con una malattia ereditaria grave nei geni?

«Perché non era uno dei punti caldi sui quali si discuteva, si palesavano altri problemi. Molti sono stati risolti con la sentenza del 2009 della Consulta che tra l’altro ha abolito l’obbligo di impianto di tutti e tre gli embrioni, una svolta importante a tutela della salute della donna».

Cosa salva e cosa modificherebbe ancora della legge 40?

«La legge 40 è importante perché ha messo ordine in un far west: ora c’è un elenco certificato di centri, pubblici e privati, monitorati ex lege, preposti alla fecondazione assistita. Inoltre la legge 40 stanzia fondi per la ricerca. Nella prossima legislatura però bisognerà mettersi intorno a un tavolo e riscrivere la legge in tre punti. Bisognerebbe, anche se la questione è delicata, dare alle coppie sterili la possibilità di fecondazione eterologa; inoltre vanno stanziati fondi per contrastare e studiare la sterilità, sempre più diffusa, e va consentita la ricerca sugli embrioni in sovrannumero che oggi vengono congelati e poi muoiono».

Temi delicati sui quali non c’è accordo nello stesso Pd…

«Almeno noi non mettiamo la testa sotto la sabbia».

Il fine vita è un altro di questi…

«Sogno di concludere la legislatura con una proposta di legge frutto della rielaborazione degli emendamenti presentati durante la discussione sul testamento biologico. Un testo che eviti l’abbandono terapeutico, sempre all’agguato in tempi di tagli, e tuteli il diritto a una fine dignitosa mettendo al centro la relazione medico-paziente».