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Sedici anni senza Nilde Iotti

4 Dicembre, 2015 (10:26) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Sedici anni fa ci lasciava Nilde Iotti. Ho ancora vivissimo negli occhi il ricordo delle migliaia di persone, donne e uomini semplici , autorità e rappresentanti  di tutte le forze politiche, che vennero a salutarla in quella che è stata la sua vera casa : il Parlamento. Donne e uomini che piangevano l’autorevole Presidente della Camera, la Presidente di tutti, ma anche la compagna, l’amica delle donne,l’amica delle persone semplici. 

Nella  sua vita ha conosciuto le fatiche, la fierezza, l’amore intenso e l’intenso dolore , l’amore per la figlia Marisa e per i nipoti, la grande passione per la politica dove ha saputo essere innovatrice, intransigente e madre generosa.

Nilde Iotti nasce il 10 aprile del 1920 a Reggio Emilia, da Egidio ed Alberta Vezzoli, sposati civilmente.

Una famiglia tranquilla,  Egidio, ferroviere, socialista prampoliniano  ed attivista sindacale ; Alberta, una casalinga che amava leggere il Manzoni. Dopo l’avvento del fascismo, il  padre decide di ritirare la figlia dalla scuola pubblica per iscriverla ad un istituto cattolico, nel tentativo di sottrarla all’indottrinamento fascista ”meglio i preti dei fascisti”. Il padre pagò con il licenziamento dal lavoro  la sua fede  antifascista costringendo la famiglia ad affrontare grandi difficoltà economiche. Su un punto il padre non  arretra:  fare studiare la figlia. Esaltava il valore dello studio come base per diventare classe dirigente e sconfiggere il fascismo.”  Nilde, loro sanno, loro sanno” soleva ripetere alla figlia. Loro erano i borghesi e per far vincere il proletariato bisognava che esso si acculturasse. Dopo la morte del padre avvenuta nel 1934,la situazione economica si aggrava ulteriormente e la madre inizia a lavorare per permettere a Nilde Iotti, pur con grandi sacrifici di continuare gli studi intrapresi presso l’Istituto “ Principessa di Napoli” di Reggio Emilia.

Nel 1938 ,grazie ad una Borsa di studio, Nilde si iscrive alla facoltà di Magistero Dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nilde avrebbe preferito iscriversi alla facoltà di medicina o di ingegneria ma deve rinunciare per ragioni economiche e si prepara alla carriera dell’insegnamento. Partiva da Reggio Emilia con il treno verso Milano, viveva in una piccola stanzetta in affitto  e sentiva i rumori dei bombardamenti e le urla delle persone cui si univa nei rifugi . Nel corso degli anni universitari, inseguito allo studio della dottrina e della morale cattolica, Nilde Iotti vive una profonda crisi di carattere religioso che la porta ad allontanarsi dalla fede cattolica.

Il 31 ottobre del 1942 si laurea con una tesi dal titolo” L’attuazione delle riforme in Reggio Emilia nella seconda metà del secolo XVIII”.  Dopo la laurea ritorna a Reggio Emilia e comincia ad insegnare lettere presso l’Istituto Tecnico Commerciale per geometri ”A.Sacchi”. La devastazione prodotta dal fascismo , l’avvio della guerra partigiana la sollecitano a schierarsi, a fare la sua parte. Lo fa ascoltando molte voci: prima  fra tutte quella delle  donne dei Gruppi di Difesa delle Donne, la prima grande ed unitaria organizzazione femminile aperta a tutte le donne. Ascolta la voce del cattolico La Pira, dei socialisti.

A convincerla in modo definitivo nella scelta politica non solo contro il fascismo ma accanto al partito Comunista Italiano  fu l’ascolto della “voce gracchiante di Ercoli(Togliatti)” a Radio Londra quando annuncia la Svolta di Salerno, l’unità antifascista, il sostegno del governo Badoglio per sconfiggere il fascismo ed il nazismo e l’impegno a  costruire la democrazia progressiva, attraverso l’unità dei comunisti, socialisti e cattolici. Fin dall’inizio del suo apprendistato politico Nilde Iotti ha un atteggiamento aperto che la porta all’ascolto di tutte le voci e di tutte le culture schierate contro il fascismo. Nel 1945 ,in piena occupazione tedesca, festeggia il suo primo 8 marzo organizzando una manifestazione di donne davanti alla questura di Reggio Emilia  per richiedere la distribuzione dei viveri ed il rilascio dei detenuti politici. Nel luglio ,in occasione delle prime elezioni libere viene eletta consigliera comunale come indipendente nelle liste del PCI. Tante volte ci raccontava dei suoi  primi  comizi nelle piazze e nelle strade, a volte deserti ma solo apparentemente, perché  le donne l’ascoltavano chiuse nelle loro case dietro le finestre, poi cominciarono ad affacciarsi  sui balconi.

Nell’autunno venne eletta segretaria provinciale dell’UDI che contava 23mila iscritte e svolge una attività intensa tra le donne imprimendo una svolta innovativa rispetto alla tradizionale impostazione della battaglia di emancipazione. Bisognava che le donne fossero impegnate nel lavoro ma anche nella cultura. Bisognava rivolgersi alle operaie ma coinvolgere anche le casalinghe, le insegnanti, le donne più colte. Bisognava sostenere e valorizzare gli affetti famigliari ma costruire una famiglia nuova basata sulla pari dignità tra uomini e donne e superando il rapporto autoritario con i figli .Nel 1946 si iscrive al PCI e viene eletta parlamentare con 15.936 voti di preferenza(a Reggio Emilia ottiene il 45,7 % dei voti).

Fu una delle 21 Costituenti, entra a far parte della” Commissione dei settantacinque” incaricata di elaborare la bozza del testo costituzionale. Partecipa alla  Prima Sotto Commissione che si occupa della stesura dei diritti e dei doveri. Nilde Iotti fu relatrice sul tema della famiglia ed introdusse fin da subito i temi della parità tra i sessi, del sostegno alla donna lavoratrice e madre, della equiparazione giuridica  dei figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori del matrimonio per garantire  pari tutela e dignità a tutti i bambini/e.

Fu eletta segretaria nazionale  dell’ UDI e incontrò Togliatti. Un incrocio di sguardi mentre scendevano le scale di Montecitorio accese nei loro cuori una fiamma potente. Lei, giovane di 26 anni, Lui capo indiscusso del PCI sposato con Rita Montagna da cui aveva avuto un figlio. Fu un amore intenso, vissuto con pari intensità ,come confermano le lettere d’amore che sono pubblicate nel libro di Luisa lama “NILDE IOTTI: una storia politica femminile”(Donzelli editore).Un amore forte che entrambi vollero vivere in libertà ma che cozzava con la morale di quei tempi e che fu aspramente ostacolato dai dirigenti comunisti.

Persino Stalin era preoccupato di quella giovane donna, che aveva studiato in una scuola cattolica e che avrebbe potuto essere una spia del Vaticano , che coinvolgeva così tanto e tanta influenza esercitava sul Capo dei comunisti Italiani. Adottarono tramite affiliazione Marisa Malagoli, sorella di un operaio rimasto ucciso durante uno scontro con la polizia nel corso di uno sciopero a Modena. Erano una “strana famiglia” che viveva con grande intensità il loro legame famigliare. La carriera politica di Nilde subì una battuta d’arresto in virtù del legame d’amore con il Capo.  Fu eletta nel Comitato Centrale nel 1956 con un numero minimo di voti.

Quando ci fu l’attentato a Togliatti fu la prima a correre a soccorrerlo ma fu allontanata dai dirigenti. Potè  andare al suo capezzale solo perché esplicitamente chiamata da Togliatti.  Fu riconosciuta come la sua legittima compagna  nel 1964 quando Togliatti morì.

Si occupò con particolare dedizione dei temi del Diritto di famiglia, delle pensioni alle casalinghe,  del divorzio assumendo come riferimento  l’idea di famiglia come comunità di affetti. Nel 1962 entrò nella Direzione nazionale del partito .Europeista convinta nel 1969 viene eletta membro dell’assemblea parlamentare europea. Nel 1979 viene eletta ,prima donna, Presidente della Camera. Nel suo discorso di insediamento dedicò le sue prime parole alle donne italiane, cui rimase sempre profondamente legata e fedele. A partire dalle sue amiche di Reggio Emilia. Alle donne in particolare insegnava l’eleganza della politica, che doveva nutrirsi di cultura, ricercare e promuovere il bene comune, essere capace di ascolto. Amava l’eleganza  degli abiti e della persona e ci sollecitava a curare il nostro aspetto, ad avere cura della nostra persona. Aveva una grande stima di sé ma non parlava di carriera ma di “progressione”.

Aveva una grande stima di sé ma sapeva essere semplice, disponibile e considerava fondamentale per la democrazia praticare una politica popolare capace di rendere attive e protagoniste tutte le persone.

Presidente imparziale, si impegnò subito per la riforma della seconda parte della Costituzione per rendere il Parlamento più efficiente. Uno dei suoi primi atti fu il Lodo Iotti, per impedire l’ostruzionismo separando la discussione sugli emendamenti dall’espressione del voto di fiducia. Cui seguì la riforma dei Regolamenti parlamentari. A meno di un anno  dalla fine del suo mandato riceve da Cossiga la nomina di senatrice a vita ma la rifiuta, preferendo restare a Montecitorio, dove l’avevano chiamata i cittadini e la fiducia dei colleghi.

Nel partito fu una innovatrice e si schierò subito dalla parte di Occhetto alla svolta della Bolognina per il superamento del PCI e costruire un nuovo soggetto politico della sinistra.

Fu l’unica donna ad avere conferito l’incarico esplorativo per formare un Governo.

Nominò Tina Anselmi, l’altra grande madre della Repubblica, Presidente della Commissione che indagava sulla P2 di Licio Gelli.

Tornata al semplice lavoro parlamentare costruì  un forte legame con” le giovani compagne” ,  ci  sostenne nelle battaglie per una nuova  legge contro la violenza sessuale, per la democrazia paritaria, per cambiare i tempi di vita e conciliare il lavoro e la famiglia, nel progetto della Carta delle Donne “dalle donne la forza delle donne” (1986). Era austera ma sapeva anche essere materna e teneva molto alla cura della sua femminilità. La ricordo quando durante i congressi  o le riunioni più impegnative tirava fuori dalla borsetta il rossetto e con grande naturalezza se lo spalmava sulle labbra e pettinava i suoi capelli.

Si impegnò per la riforma delle istituzioni, presiedendo la Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali voluta da De Mita nel 1993. Il 28 gennaio del 1998 pronuncia un importante discorso in Aula a sostegno delle riforme emerse dalla Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Credo che oggi sarebbe contenta di vedere finalmente varata la riforma del Senato e sarebbe fiera del protagonismo femminile.

Stanca e malata Nilde Iotti continua a lavorare ed a studiare sui banchi di Montecitorio fino al 18 novembre del 1999, quando lascia l’Aula dopo 53 anni ,accompagnata da un lunghissimo applauso.

“Lascio con rammarico dopo 50 anni di lavoro il mio incarico di parlamentare. Mi auguro che lo spirito di unità per cui mi sono sempre impegnata prevalga nei confronti dei pericoli che minacciano la vita nazionale. Vi ringrazio per la cortesia.”

Muore pochi giorni dopo,  la notte del 3 dicembre 1999,salutata da una grandissima partecipazione popolare, confermata due giorni dopo nei funerali di  Stato. Riposa nel  cimitero del Verano di Roma accanto a Palmiro Togliatti.

Il suo messaggio di una politica bella, pulita, onesta , ricca di cultura può continuare a conquistare il cuore di tanti giovani e ragazze, esserne punto di riferimento.

Livia Turco

da l’Unità del 3 dicembre 2015

Berlinguer vive nel nostro tempo

25 Ottobre, 2015 (13:41) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

da L’Unità del 25 ottobre 2015

Berlinguer vive nel nostro tempo. Si può incontrare l’attualità del suo pensiero sui temi cruciali del nostro tempo come la globalizzazione, la qualità dello sviluppo, il rinnovamento della politica, il ruolo del sentimento religioso, la relazione tra uomo e donna.

Berlinguer vive nel nostro  tempo, pur essendo un uomo del suo tempo, perché è stato un politico dotato di pensieri  lunghi che ci ha lasciato in eredità una” vivente lezione” per usare una espressione di Franco Rodano. Pensieri lunghi che egli elaborò grazie al suo modo di vivere la politica: cogliere il senso profondo degli avvenimenti, scrutare in profondità l’animo umano , porsi sempre in atteggiamento di ascolto .

Forse non avrebbe immaginato lo strazio di migliaia di vite umane senza vita nel nostro Mediterraneo ma il tema del mondo nella sua globalità e soprattutto i problemi del  sottosviluppo e della povertà di quello che allora si chiamava Terzo mondo costituiva un suo assillo ed un cimento del suo pensiero. Nel  1975 in vista del xiv congresso del Pci elaborò una proposta di cooperazione internazionale, basata sulla distensione tra Usa ed Urss, di cui garante doveva essere anzitutto l’Europa, in cui ciascun popolo doveva partecipare in una rinnovata divisione internazionale del lavoro, basata appunto sulla cooperazione e non sul conflitto e sulla rapina delle risorse da parte dei paesi più  forti, che avrebbe liberato e fatto emergere nuove risorse.  “Si pensi a quali risultati potrebbe  portare una cooperazione mondiale rivolta a scoprire ed utilizzare le inesauribili fonti di energia  che possono venire non solo dall’uranio, ma dall’idrogeno e forse ancor più dal sole, dagli oceani, dalle profondità in parte sconosciute e comunque ancora così largamente inesplorate del sottosuolo. Si pensi anche alle immense distese di terre che potrebbero essere conquistate o riconquistate alla fertilità ed alla coltura.”

Fino ad  ipotizzare un ” Governo Mondiale.” “Se vogliamo gettare uno sguardo più lontano, si può  pensare che lo sviluppo della coesistenza pacifica e di un sistema di integrazione così vasto e da comprendere i più’ vasti aspetti dello sviluppo economico e civile della intera umanità, potrebbe anche rendere realistica l’ipotesi di un “governo Mondiale” che sia espressione del consenso e del libero  concorso di tutti i paesi”.  In modo  ancora più esplicito il tema torna nella tanto contesta proposta dell’austerità, che lui propone  come  leva per trasformare l’Italia ed instaurare una cooperazione con il Terzo mondo. Problema che in quegli anni  riguardava  tutto l’Occidente difronte al  moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. Ciò  comportava ,secondo lui,  due conseguenze fondamentali ”Bisogna aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismo, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. La politica di austerità è guidata dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura.”

Di cosa discutiamo oggi se non di cooperazione, di una politica efficace verso l’Africa, di accordi bilaterali, di un diverso governo dei processi di globalizzazione?  E la crisi tremenda di questi anni non è il frutto della finanziarizzazione dell’economia, slegata dall’economia reale con le drammatiche diseguaglianze che ostacolano lo sviluppo e non solo sono disumane.? La crisi non è frutto dell’esasperato consumismo  che riduce la soggettività umana all’io solitario che ricerca la sua realizzazione nel  godimento del consumo? E non c’è una forte similitudine tra quelle idee dell’austerità e la proposta della sobrietà che viene avanzata oggi  da molti e che, in modo particolare, è diventata esperienza di vita e progetto di tante donne e tanti uomini? Non c’è oggi una consapevolezza nuova sul valore dei Beni  Comuni, delle  relazioni umane, della valorizzazione delle competenze umane per realizzare uno sviluppo economico più efficace  e competitivo?.

In questo nostro tempo  così sofferente eppure così desideroso di speranza constatiamo quanto sia importante il sentimento religioso, quanto siano incisive e profetiche le parole di Papa Bergoglio. Ed allora mi suonano vicine ,famigliari, utili le riflessioni che Berlinguer dedicava costantemente ai cattolici.  Il suo dialogo con Monsignor Bettazzi,  Vescovo di Ivrea  quando affermò  che una coscienza religiosa può animare una forte trasformazione sociale ed anche arricchire  gli ideali socialisti. Quando affermò sempre in risposta a Monsignor Bettazzi che “nella promozione di beni  comuni come la scuola, i servizi sociali , può essere fecondo un pluralismo di soggetti in sintonia con l’articolo 2 della Costituzione,  purchè   tutti siano animati dal principio di laicità e non vogliano inculcare la società cristiana.”

Oggi le donne sono protagoniste nella sfera pubblica sociale, si sentono forti ed autorevoli eppure continuano a vivere pesanti discriminazioni nel lavoro, nel salario, faticano a conciliare il lavoro e la famiglia, sono vittime di violenze in famiglia. C’è bisogno di relazioni di solidarietà e condivisione di responsabilità tra donne e uomini. C’è bisogno di una nuova grammatica dei sentimenti. Ed anche a questo proposito tornano famigliari e profonde, piene di calore umano  le riflessioni e le iniziative che in modo costante Berlinguer dedicava alle donne. Lui capì  che il femminismo era stato  prima di tutto un moto dell’anima, un difficile ed impegnativo viaggio interiore che le donne intraprendevano  per liberarsi dagli stereotipi e dai modelli sui quali erano  cresciute. Per questo fu molto importante il suo atteggiamento umano ed intellettuale verso le donne. Un atteggiamento di curiosità, ascolto, rispetto e discrezione.

Di grande serietà. Le sue parole lasciavano il segno perché trasmettevano questo suo lavorio dell’anima, ed erano pietre perché ad esse seguivano fatti e scelte concrete. Come la costituzione del Gruppo Interparlamentare  autonomo delle donne.

Le donne erano per lui un grande e peculiare soggetto del rinnovamento che obbligavano a ripensare la politica, i confini della politica, il rapporto tra il pubblico ed il privato, la concezione della famiglia, del lavoro, del modello di sviluppo. La sua attenzione alle donne, il cambio di paradigma culturale, non solo l’emancipazione ma la liberazione femminile e la lotta al maschilismo, si accentuò, divenne profonda e costante nel corso degli anni 80,nella temperie culturale che aveva visto fallire con l’uccisione di Aldo Moro  la grande ed impegnativa strategia del Compromesso Storico e Berlinguer proponeva l’alternativa democratica.

Gli anni in cui rifletteva su una nuova qualità della politica, sulla centralità della questione morale, lui che credeva così tanto nella funzione dei partiti ed aveva sperato, attraverso l’alleanza, che cambiasse anche un partito storicamente antagonista come la DC con cui non esitò a costruire un governo per sconfiggere il terrorismo e difendere la democrazia e lo Stato. Gli anni in cui rifletteva sulla necessità di un nuovo pensiero riformatore che raccogliesse le grandi domande di rinnovamento che venivano dalla società ed ascoltare i nuovi protagonisti politici che si erano affermati nella scena pubblica: le donne, i giovani, il movimento pacifista ed ambientalista. Ma anche le novità delle nuove tecnologie che avrebbero rivoluzionato le modalità della comunicazione.

Cito come uno dei suoi testi fondamentali l’articolo sulla rivista Rinascita del 4 dicembre 1981”Rinnovamento della politica, rinnovamento del Pci”. Non ho mai pensato che questo ultimo  Berlinguer fosse portatore di una linea politica di arroccamento, difensiva, un modo per eludere il deficit delle alleanze politiche  che si era determinato con la fine del Governo di unità nazionale ed il persistere della divisione a sinistra, peraltro non voluta e non ricercata da Berlinguer medesimo .Macaluso su questo giornale ricorda l’incontro alle Frattocchie  con Craxi nl 1993 per stilare un comune programma di governo. Ho sempre pensato che quella politica scrutasse  con sguardo, pensiero, cuore profondi, cosa avveniva nella società per scrivere una modernità che fosse un nuovo  umanesimo e che lui praticava con la forza dell’esempio.

Come quando sfidando le critiche di tanti, durante la crisi della Fiat, andò tra gli operai e disse loro “siamo  e saremo con voi”. Il legame con le persone, la cura delle persone, questo era per lui prima di tutto la politica. Come confermano le immagini che ricordano gli ultimi giorni della sua vita. Con gli operai, con le donne, con la gente semplice, con le persone.

Livia Turco

Immigrazione. Basta con l’emergenza. Serve nuovo approccio

7 Settembre, 2015 (17:12) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

La natura e le cause che provocano l’esodo dei profughi chiede che si abbandoni la parola “emergenza” e si guardi al fenomeno immigrazione con una visione nuova e con un progetto. D’altra parte questo è stato l’impegno della Commissione Europea che con la sua Agenda sull’immigrazione,  fortemente sostenuta dall’Italia, propone una nuova visione del problema. Intervenire sulle cause dei conflitti, promuovere   un  forte e continuativo programma di cooperazione con  i paesi dell’Africa, rendendoli  protagonisti attivi del governo dell’immigrazione.  Questo è peraltro  il significato e l’esito concreto dei corridoi umanitari per selezionare in loco le domande d’asilo e attivare i rimpatri  assistiti. 


Distruggere i mercanti di morte e fermare il traffico di esseri umani. 

Particolarmente rilevante è la riforma dei Trattati di Dublino e la proposta del diritto d’asilo Europeo. Tale proposta, nella sua concretezza e gestita nell’emergenza,  ha  un risvolto importante sul piano dell’identità e del profilo ideale dell’Europa.  Contribuisce a costruire l’Europa della solidarietà  e dell’unità nella diversità. 

Per governare le tragedie conta la determinazione politica e contano  gli atti simbolici .Essi  possono cambiare il corso degli eventi. Come ha saputo fare Angela Merkel. Come seppero fare Ministri e Ministre dei Governi dell‘Ulivo quando i Balcani erano in fiamme.


Difronte al risorgere dei confini e dei nazionalismi dobbiamo porci l’interrogativo  di quali sono le ragioni per cui è così’ difficile costruire una politica europea dell’immigrazione. Ravviso due questioni che attengono alla stori del vecchio continente.

L’immigrazione ha sempre fatto parte della storia dei singoli paesi europei ma in modo molto peculiare, fortemente intrecciato alla peculiare storia nazionale. 


Queste peculiarità nazionali, questo intreccio nazione- immigrazione è alla base della difficoltà a pensare una convenienza comune ed una storia comune, a forme comuni di convivenza tra nativi e migranti. E, dunque a politiche comuni.


L’altra questione, sicuramente complessa, è che i diversi paesi Europei,  pur avendo  sperimentato  modelli diversi di integrazione, di cui almeno  tre hanno fatto scuola: l’assimilazionismo francese, il  neo comunitarismo inglese, il  multiculturalismo olandese, tutti e tre non hanno mantenuto le promesse . Non c’è stata sostanziale  integrazione sociale e culturale , soprattutto tra i giovani. Il riconoscimento delle differenze  si è tradotto quasi sempre nella  semplice” tolleranza”  delle differenze   che ha comportato una loro  sostanziale  ghettizzazione. Stare gli uni accanto agli altri senza fare la fatica del conoscersi e riconoscersi; senza cercare obiettivi comuni e condivisi: questo è stato il limite di tutti i modelli di integrazione sperimentati in Europa.   Con una parziale eccezione della Germania, della Svezia e dell’Italia. 


Se la parola d’ordine delle politiche europee sull’integrazione è stata “interazione” come processo bidirezionale che deve coinvolgere e cambiare entrambi i soggetti; dialogo con l’altro ed accoglimento della peculiarità della sua cultura,  fuori da ogni relativismo etico, nell’ambito dei nostri valori costituzionali ,nei fatti questo  è avvenuto molto poco.

Come mai? Come mai  in ciascun paese europeo è stato così  poco praticato ciò che con toni ed in modi diversi  da tutti sostenuto: riconoscere l’altro nella sua identità e cultura?


Perché nell’immaginario collettivo, nel senso comune, nella cultura diffusa, di noi europei - nonostante gli immigrati soprattutto nei paesi di più antica immigrazione siano ormai una popolazione integrata, che accetta regole e valori del paese ospitante - essi restano per noi forza-lavoro, lavoratori ospiti e non cittadini.

Questo in ragione del fatto che da parte delle classi dirigenti di ciascun paese europeo di fatto è prevalso un approccio economico corporativo al tema immigrazione.


I migranti, le loro vite, le loro culture  non sono diventati ingredienti delle identità nazionali e della identità europea. Nel corso di tanti anni, tranne rare eccezioni, non sono stati chiamati a costruire la comunità, a concorrere a definire le scelte che la riguardano. Non sono stati incentivati a diventare attori della polis, ad occupare e praticare  la scena pubblica.

Sono rimasti confinati nella dimensione economica e privata.


Mi spiego tutto ciò con il permanere, soprattutto in noi italiani, di una concezione della cittadinanza e della identità italiana, come un fatto omogeneo, connesso al legame di sangue. Nonostante il cosmopolitismo della nostra cultura e gli italiani sparsi nel mondo  il sentimento dell’identità nazionale non  è diventato capace di praticare la pluralità.

Anche per questo facciamo fatica a sentirci europei.


Ecco, io penso che la difficoltà a costruire una politica europea dell’immigrazione risieda in questa concezione omogenea e nazionalista della cittadinanza e dell’identità nazionale che in modo diverso coinvolge ciascun paese europeo.



Cosa è una nazione? Come costruire una dimensione della cittadinanza che non sia chiusa nei confini della Nazione? Anche perché i Trattati internazionali adottati dall’Europa  affermano che non sono i confini ma è  la dignità umana la fonte dei diritti e dei doveri. Dunque, un capitolo fondamentale dell’Agenda Europea  che si sta discutendo deve essere quella delle politiche di convivenza volte a costruire l’Europa plurale, l’unità nella diversità. Ciò significa far diventare pratica quotidiana la parola “interazione” e, soprattutto, farla vivere nella dimensione pubblica, civile e politica. La partecipazione attiva dei migranti alla vita della comunità, la condivisione di obiettivi comuni per migliorare insieme il nostro paese e l’Europa: questa è la strada da percorrere.


Migranti attivi, che costruiscono relazioni positive con i nativi nella vita sociale ed in quella politica (non solo nelle nostre famiglie) cambiano la percezione dell’immigrazione, alimentano sentimenti comuni di appartenenza e  dunque creano un senso civico condiviso ed una democrazia più forte.

Come dimostra la recente  reazione degli italiani difronte ai nuovi venuti che in modo diligente hanno svolto o si sono dichiarati disponibili a svolgere lavori utili alla comunità.


Livia Turco

Da l’Unità del 6 settembre 2015

La nostra Repubblica ha anche “madri”. Non solo “padri”

7 Luglio, 2015 (16:31) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

”L’Italia è una repubblica che ha dei padri Costituenti, è vero, ma ha anche delle madri Costituenti e noi oggi, da oggi, lo vogliamo urlare perché siamo stufe di sentir parlare dell’Italia come di una repubblica di soli padri, è un falso storico”. Così Livia Turco in occasione della presentazione della vincitrice della borsa di studio sul tema promosso dalla Fondazione Nilde Iotti.

Parte da qui il progetto ”Rigenerare”, che vede in prima linea il gruppo Pd della Camera, la fondazione Nilde Iotti e che in occasione del 70esimo anniversario della Liberazione vuole ”ridare giustizia al ruolo fondamentale che le donne hanno avuto”.

”Vogliamo colmare una carenza storica - ha detto Livia Turco, presidente della fondazione Nilde Iotti - vogliamo ricordare le donne partigiane, i gruppi di difesa delle donne, che sono state il primo nucleo di partecipazione politica, il primo partito delle donne. E poi la conquista del diritto di voto e le nostre madri, le 21 costituenti che si continuano ad ignorare”.

Da qui l’appello: ”Che in occasione del 70esimo anniversario si faccia una grande campagna per le madri della Repubblica, si intitolino strade, piazze, si faccia una campagna nelle scuole. Perché è un falso storico che l’Italia sia una Repubblica di soli padri”, ha sottolineato la Turco.

Un modo, questo, di riconoscere il ruolo delle donne che ‘’sara’ anche il modo migliore per onorare l’importante anniversario e anche una occasione per offrire alle giovani generazioni un momento di analisi del passato e del presente, ha sottolineato Irene Manzi, Comitato per il 70esimo della Resistenza gruppo Pd della Camera. Previsti incontri in tutta Italia, nelle scuole. E non solo.

C’è anche una proposta di legge, a firma Marina Sereni, vice presidente della Camera, che ha come obiettivo quello di dedicare alla donne partigiane una ”loro giornata, il 24 aprile, che non sara’ una seconda festa della Liberazione, ma come richiesto anche dalle donne dell’Anpi, può essere un modo giusto ed adeguato per ricordare le nostre madri costituenti, cosa che ad oggi non è stata fatta”.

”Vogliamo tirare fuori dalla memoria il ruolo attivo delle donne - ha aggiunto Roberta Agostini, responsabile nazionale donne del Pd - è grazie a quel ruolo che entrarono in Parlamento e da allora hanno contribuito a rendere il nostro Paese nettamente migliore”. (ANSA).

Papa Francesco e la cura del bene comune

21 Giugno, 2015 (09:21) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Laudato si mi Signore, cantava Francesco D’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava  che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, è come una grande madre  bella  che ci accoglie tra le sue braccia.

Questa sorella oggi protesta per il male che le provochiamo a causa  di un uso irresponsabile e di un abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che siamo suoi proprietari autorizzati a saccheggiarlo. Per questo tra i poveri  più abbandonati  e maltrattati  c’è  la nostra  oppressa e devastata terra. Che geme e soffre le doglie del parto. Dimenticando che noi stessi siamo terra. Il nostro corpo è costituito dagli elementi del pianeta e la sua aria e la sua acqua è quella che ci vivifica e ristora.

In questo inizio dell’Enciclica di Papa Francesco “Laudato si. La cura del bene comune”, è condensata tutta la sua portata dirompente.  Che risiede, a mio avviso, nell’essere un documento che coinvolge cuore e mente è che si rivolge a tutti. Un testo plurale in cui le fonti citate non sono solo le Sacre  Scritture, i Padri della Chiesa ma documenti di episcopati di tutto il mondo, cristiani appartenenti ad altre chiese, oltre alle fonti rigorosamente scientifiche.

Un testo che si rivolge a tutti ma riproponendo in modo radicale e netto una visione della vita, dell’uomo e della donna profondamente cristiana. La teologia della Creazione che ci propone non è solo l’attenzione al grande problema della natura, ma la visione della persona umana che si basa sulla fede in Dio, sull’amore  per l’uomo è per la natura intesa come parte integrante dell’umanità dell’uomo.

La cura del bene comune chiarisce ed attualizza questa visione antropologica. La cura è l’investimento sulle relazioni umane, è prendersi cura delle persone, è l’investimento amorevole in ogni cosa che ci circonda, persona o natura. La cura è la presa in carico di chi è fragile è debole è la lotta concreta contro la povertà. Ed è la promozione e la tutela dei beni comuni, quei beni come l’ambiente, la formazione, il lavoro,  il calore delle relazioni umane che compongono la dignità delle persona e definiscono la qualità della vita. La cura  rifugge dall’uomo demiurgo, che in nome del progresso e delle continue scoperte scientifiche non accetta “il limite”, lo infrange per andare sempre più avanti.

Ma proprio lo smarrimento della coscienza del limite (non tutto quello che si può si  deve fare) è alla base dei mali profondi che soffre il pianeta.

L’Enciclica analizza la questione ecologica in tutti i suoi aspetti con grande rigore scientifico, denuncia i mali come la “globalizzazione del paradigma tecnologico”, l’intima  relazione che intercorre  tra povertà e fragilità del pianeta. Avanza  proposte nette e coraggiose come la decrescita, la sobrietà (si tratta di convincere che meno è di più). Coglie il rapporto tra disastri ambientali, povertà ed emigrazione. Propone uno sviluppo basato in ogni campo sull’approccio ecologico.

Denuncia i poteri economici forti delle loro scelte scellerate e le profonde inadeguatezza della politica. Ma, sarebbe una perdita anche per i non credenti non cogliere la visione antropologica che è alla base dell’Enciclica. L’uomo che sa “curare ” e non solo fare scoperte, che accetta “il limite ” e trova il suo limite nel bene dell’altro e della comunità.

Che scopre il valore del tempo lento, della convivialità, del dono. Che sa fermarsi per guardare a che punto del traguardo sono arrivati gli altri.

E’ bellissimo il paragrafo dedicato a S.Francesco. “In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili le preoccupazioni per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e  la pace interiore.” Amare gli altri, combattere la povertà, amare la natura, riempie il cuore di gioia, è fonte di felicità.

Livia Turco

Da il Garantista del 21 giugno 2015

Le difficili sfide del governo dell’immigrazione

13 Giugno, 2015 (11:24) | Articoli pubblicati | Da: Redazione

Quello dell’immigrazione è  e  sarà un tema cruciale e duro da governare perché richiederà cambiamenti profondi nelle  forme della convivenza delle società europee  ed obbligherà a ridefinire  l’identità europea ed il senso della nazionalità e della cittadinanza. Tema ineludibile, rispetto al quale la cialtroneria e la meschinità del nostro Centrodestra e della Lega di volerlo rimuovere cavalcando le paure legittime delle persone arrecherà dei danni enormi al nostro paese ed alle generazioni future.

Tema ineludibile perché le cause dell’emigrazione restano tutte, anzi si complicano (diseguaglianze, differenziali salariali, crescita economica e  dei livelli di istruzione dei paesi più poveri , processi di urbanizzazione diffusi in tutto il mondo, le crisi ambientali con il possibile effetti di esodo di intere popolazioni a causa di desertificazioni o inondazioni di specifiche aree, le dinamiche demografiche). Il flusso piu’ consistente sarà dai paesi dell’Africa Subshariana.

L’esodo che assistiamo in questi giorni con i problemi dell’accoglienza si aggiungono a quelli della integrazione delle popolazioni, soprattutto  giovanili che sono parte integrante della società europea. Si rammenti poi  il dato  dello squilibrio demografico per cui l’Europa sarà sempre più popolazione anziana con un forte deficit di popolazione attiva. Dunque, una classe dirigente che si rispetti deve affrontare di petto ed in tutta la sua complessità il problema immigrazione

Considero una buona proposta l’Agenda europea recentemente presentata dalla Commissione  Europea soprattutto perché individua la centralità dell’Africa, perché propone politiche di cooperazione e di patnership con i Paesi del mediterraneo rendendoli protagonisti in modo attivo del governo dell’immigrazione.

Selezionare in loco le persone che hanno diritto d’asilo, promuovere il ritorno nei paesi di origine  attraverso incentivi economici di quelli   che da noi verrebbero espulsi  sono misure importanti che l’Europa deve portare avanti con determinazione . Altrettanto cruciale è il principio della solidarietà nella gestione delle emergenze.

Ma non si puo’ eludere un interrogativo: perché è cosi’ difficile costruire una politica europea dell’immigrazione. Non tutto è spiegabile con la crescita dei populismi ,con gli egoismi nazionali. Ravviso due questioni che attengono alla storia politica e culturale del vecchio continente.

L’immigrazione ha sempre fatto parte della storia dei singoli paesi europei ma in modo molto peculiare, fortemente intrecciato alla peculiare storia nazionale. Non si puo’ parlare di comuni dinamiche europee dell’immigrazione o di una comune storia europea dell’immigrazione.

Queste peculiarità nazionali, questo intreccio nazione immigrazione è alla base della difficoltà a pensare una convenienza comune ed una storia comune, a forme comuni di convivenza tra nativi e migranti. E, dunque a politiche comuni.

L’altro dato, secondo me più impegnativo e duro, è che pur avendo conosciuto i diversi paesi europei modelli diversi di integrazione di cui almeno  tre hanno fatto scuola-assimilazionismo francese, neocomunitarismo inglese, multiculturalismo olandese, tutti e tre non hanno mantenuto le promesse di integrazione. Non c’è stata integrazione sociale sostanziale, soprattutto tra i giovani. Il riconoscimento delle differenze  si è tradotto in tolleranza delle differenze e o loro sostanziale ghettizzazione.

Dopo l’uccisione  di Pim Fortuyin , laeder del neo partito populista Olandese   da paese di un giovane  olandese di origine  mussulmana  e gli attentati alla metropolitana di Londra da  parte di giovani inglesi di origine mussulmana  si è realizzatala svolta  assimilazionista in  ogni paese . Anzi, la conoscenza della lingua e della cultura del paese ospitante diventa non solo obbligo doveroso per chi arriva ma criterio di selezione per chi deve essere ammesso all’ingresso. La lingua, l’educazione civica da fattore di integrazione e cittadinanza a fattore di esclusione.

Se la parola d’ordine delle politiche europee sull’integrazione è stata “interazione” come processo bidirezionale che deve coinvolgere e cambiare entrambi i soggetti; dialogo con l’altro ed accoglimento della peculiarità della sua cultura,  fuori da ogni relativismo etico, nell’ambito dei nostri valori costituzionali ,nei fatti questo non è avvenuto.

Come mai? Come mai  in ciascun paese europeo è stato cosi’ non praticato ciò che con toni ed in modi diversi  da tutti sostenuto: riconoscere l’altro nella sua identità e cultura?

Perché nell’immaginario collettivo, nel senso comune, nella cultura diffusa, di noi europei - nonostante gli immigrati soprattutto nei paesi di più antica immigrazione siano ormai una popolazione integrata, che accetta regole e valori del paese ospitante - essi restano per noi forza-lavoro, lavoratori ospiti e non cittadini.

Questo in ragione del fatto che da parte delle classi dirigenti di ciascun paese europeo di fatto è prevalso un approccio economico corporativo al tema immigrazione.

I migranti, le loro vite, le loro culture  non sono diventati ingredienti delle identità nazionali e della identità europea. Nel corso di tanti anni, tranne rare eccezioni, non sono stati chiamati a costruire la comunità, a concorrere a definire le scelte che la riguardano. Non sono stati incentivati a diventare attori della polis, ad occupare e praticare  la scena pubblica.

Sono rimasti confinati nella dimensione economica e privata.

Mi spiego tutto cio’ con il permanere, soprattutto in noi italiani, di una concezione della cittadinanza e della identità italiana, come un fatto omogeneo, connesso al legame di sangue. Nonostante il cosmopolitismo della nostra cultura e gli italiani sparsi nel mondo  il sentimento dell’identità nazionale non  è diventato capace di praticare la pluralità.

Anche per questo facciamo fatica a sentirci europei.

Ecco, io penso che la difficoltà a costruire una politica europea dell’immigrazione risieda in questa concezione omogenea e nazionalista della cittadinanza e dell’identità nazionale che in modo diverso coinvolge ciascun paese europeo.

Puo’ sembrare paradossale ma per costruire una politica europea dell’immigrazione ,più che dalle frontiere, dall’equa ripartizione dei profughi bisogna partire dalle fondamenta: la cittadinanza europea, l’identità europea, il sentimento europeo.

Non si tratta di inventare nulla ma di sviluppare concretamente il concetto di cittadinanza europea contenuta nel Trattato di Lisbona e nella Carta dei diritti umani fondamentali che contempla il  riconoscimento della pluralità di culture dento l’orizzonte dei valori universali della dignita’ umana, libertà, democrazia. Il sentimento della cittadinanza europea apre alla pluralità, indica  il motto dell’unità nella diversità. Puo’  far scattare la curiosità umana e culturale verso gli italiani con il trattino, i nuovi italiani, quelli che vivono con noi da anni   ma non abbiamo imparato a conoscere, continuiamo a considerarli quelli di cui non possiamo fare a meno perché fanno i lavori che non vogliamo più fare noi  o coloro che ci rubano il lavoro.

Una politica europea dell’immigrazione potrà veramente esserci quando in nome dei valori europei considereremo  gli immigrati non forza lavoro ma   persone, cittadini portatori di una diversità che può arricchire la nostra democrazia ed i nostri valori.


Livia Turco

Il Garantista, 13 giugno 2015